DJINN, DJINN

DJINN, DJINN

Partiamo dalla ragione sociale. Jinn, o djinn in lingua araba, sarebbe traducibile all’incirca come goblin. Un’entità soprannaturale, citata nel Corano ed entrata nell’immaginario mitologico/folkloristico, a metà strada fra il mondo angelico delle divinità e quello diabolico degli esseri umani. Trattasi più precisamente di “spiriti spirituali” che infestavano i deserti e ispiravano i poeti. Misteriose creature forse ritratte  in bianco e nero nell’artwork di copertina. Altrettanto misteriosa è la formazione del qui presente duo, composta da membri delle band svedesi Goat e Hills, entrambe non a caso nel catalogo della psichedelica Rocket Recordings, che dà alle stampe questo esordio del tutto strumentale. Rocket che peraltro ha da poco pubblicato il terzo album di Josefin Öhrn + The Liberation e sta per far uscire il nuovo lavoro dei russi Gnoomes, anche se il 2019 della label inglese è stato per adesso marchiato a fuoco soprattutto dal sensazionale Wraith dei Teeth Of The Sea, tra noise, elettronica e free-jazz.

Ancora più in ottica free-jazz si muove appunto il progetto DJINN, tanto da essere considerato – secondo le note stampa – “il primo disco propriamente jazz” di Rocket, con i fantasmi di Alice e John Coltrane a muoversi sullo sfondo. È chiara in tal senso la prima traccia in scaletta, intitolata “Jazz Financed” e via via sempre più cacofonica. Le vanno dietro in trasporto “Algäbbanem” e “My Bankaccount”, ben in linea con tendenze di avant-afro-rock astrale. Gli episodi più affascinanti e in fondo peculiari sono però quelli in cui si vira verso oscure dimensioni metafisiche, come nel rigoglioso e pacificante primo estratto “Le Jardin De La Morte”, a un passo dalla new age, oppure nell’aggraziata malinconia in punta di lenzuola di “Ghostdance”, che con il suo delicato armamentario di legni, tasti e percussioni non dispiacerebbe ad Angelo Badalamenti. “Fiskehamn Blues” mantiene un orecchio rivolto a Oriente, mentre “Rertland Bussels” anagramma il nome del filosofo Bertrand Russell omaggiandone le parole come in un trascendente rito voodoo. Sino alla chiusura dalle ironiche assonanze di “Djinn And Djuice”. Neo-monaci di culto.