CURSE THE SON, Isolator

Curse-The-Son

Purificazione dalla follia

Isolator è il terzo album del power trio Curse The Son, proveniente da Hamden, Connecticut, e guidato dal chitarrista-cantante Ron Vanacore. La band è attiva dal 2007: ha esordito con l’ep Globus Hystericus, seguito dai full-length Klonopain (2011) e Psychache (2013); in questo stesso periodo ci sono stati cambi nella sezione ritmica, che si è stabilizzata con l’arrivo del batterista Michael Petrucci (anche nei Lord Fowl) e del bassista Brendan Keefe.

Già coi lavori antecedenti i Curse The Son avevano dimostrato la loro caratura, ma con Isolator compiono un grande passo in avanti, servendosi di una formula che combina soffocante stoner-doom ed evanescenze sludge, e sfruttando un ottimo songwriting dal taglio pesantissimo, con impalpabili sensazioni uditive funk e grunge e colorato dallo spirito dei Settanta. Vanacore possiede una voce pulita dalla forte personalità e a volte ci ricorda i fraseggi di Chris Cornell (ma anche quelli di Dave Wyndorf), il bassista Keefe tesse una tela viscerale, facendo un grande lavoro su tutte le canzoni, infine la batteria di Petrucci spinge il tutto con uno spessore upbeat da sradicare l’anima.

La title-track inizia con un riff suonato da basso e batteria, poi si inserisce la chitarra pulita che doppia… manopole a manetta e tono maledetto, ecco il sound dei Curse The Son. “Callous Unemotional Traits” è un mix di influenze fra Alice In Chains e Soundgarden, ma lento e doom, a base di un riff ossessivo e condotto da bei passaggi di batteria, poi tocca a “Sleepwalker Wakes”, inno stoner infarcito di sludge dal ritmo convulso e martellante, mentre al contrario la successiva “Hull Crush Depth” è forse la più delicata del set (nonostante qua e là ci siano rigurgiti grevi) e termina tra l’altro con un duetto funky tra batteria e basso. Si continua con la sabbathiana “Gaslighter”, giri di chitarra dinamici e andatura lenta, mentre “Aislamiento”, la più lunga, è una marcia funebre cosmica: bellissima la ripresa del motivo al quinto minuto, un giro nella migliore tradizione sabbathiana, e io ci sento anche quelle cose malate di gobliniana memoria. Il sipario cala con la psych-doom “Side Effects May Include…”, in cui Vanacore canta in una forma “stratificata”, come faceva il buon Layne Staley.

I fan di Fu Manchu, Black Sabbath, Sleep, Pentagram, Electric Wizard e Trouble troveranno qui pane per i loro denti, ma personalmente rinvengo in quest’album anche tanto dello spirito dei Settanta – quello proto-metal per intenderci – e dunque azzarderei i nomi di Sir Lord Baltimore, Pentagram e forse non solo. In tutto il lavoro i giri di chitarra sono molto belli, semplici, mai però noiosi. Ci sono decine e decine di band, anche affermate, con buone idee ma alla fine tremendamente noiose, che cestino dopo il primo ascolto. Qui, invece, non c’è di sicuro nulla di nuovo, però il modo che i Curse The Son hanno di intendere e dipingere il loro quadro a olio acido e gravoso determina  un grande disco, nel quale reinterpretano con suoni moderni e in modo eccelso il proto-metal, trasformando ogni canzone in un viaggio a sé, dandole una propria anima. La registrazione è molto raffinata rispetto ai loro album passati, le riprese degli strumenti sono da disco di seria A: complimenti al fonico, è riuscito a intendere perfettamente cosa volevano i musicisti e ha creato un muro di suono tosto e con tanta dinamica. Penso anche che quando si trovano le persone giuste per creare, tutto diventa più semplice, istintivo, infatti grazie all’arrivo dei due nuovi componenti la differenza compositiva si sente: il bassista Keefe doppia i giri di chitarra, ma riesce anche a stendere tappeti di note solistiche in cui Vanacore colloca le sue preghiere ipnotiche, per poi ricongiungersi con i riffoni fuzz della chitarra. Ecco perché non sono noiosi, questo bassista è fenomenale! Petrucci dietro le pelli fa dei passaggi che in alcuni casi mi ricordano cose dei Cream. Rullate perfette, uso dei piatti al momento giusto: se il bassista sostiene in modo magistrale le litanie vocali e i fraseggi maniacali e ultra distorti di Vanacore, direi che Petrucci è il pendolo perfetto per loro due, per come incastra perfettamente le loro escursioni tematiche, dando loro le giuste tensioni.

Con Isolato la band raggiunge la maturità artistica, mescolando in giuste dosi il doom, lo stoner e il proto-metal. In conclusione questo è un album che sta molto bene nella mia collezione di dischi. E nella vostra? Spero di vederli presto in tour in Europa.