Cosa significa davvero lento: intervista a Tony Buck (The Necks)

The Necks, foto di Robert Divers Herrick

Tony Buck è un batterista con uno stile unico, famoso soprattutto per essere un terzo di una band che piace a tutti o quasi, gli australiani The Necks. Ho avuto modo di farci una lunga chiacchierata in una piovosa giornata di fine agosto in un bar di Mulhouse, in occasione del Météo Festival.

Vivi a Berlino: come fate per organizzare le prove coi Necks?

Tony Buck: Semplicemente non proviamo. Quando abbiamo iniziato (era il 1987), abbiamo passato circa sei mesi a provare 2-3 volte alla settimana. Suonavamo solo per il piacere di suonare, senza porci alcun obiettivo. L’improvvisazione è ovviamente il centro del nostro processo compositivo, e lo è da quando abbiamo cominciato.

Quando vi siete incontrati, come è emersa l’idea di fare questo tipo di musica così peculiare?

Ci conoscevamo già per via di altre nostre band, suonavamo modern jazz o vari tipi di rock, ma eravamo tutti interessati a percorrere altre strade, e in particolare quella dell’improvvisazione totale, senza contemplare però gli assoli, concentrandoci invece soprattutto sul suono, su qualcosa che in qualche modo fosse superiore alla somma delle nostre individualità.

Se dovessi definire come suona la vostra musica? Se io dovessi farlo, direi che somiglia alla pioggia.

Ah, interessante. Di recente è uscita una recensione del nostro disco che dice che qualsiasi cosa noi facciamo, comunque suona sempre come The Necks. Per alcuni il nostro nuovo disco suona differente dagli altri, per me no: abbiamo già fatto cose di questo tipo in passato.
Mi piace questa idea dell’acqua: non puoi tuffarti nello stesso fiume due volte, è tutto centrato sul flusso, in modo molto organico, sul lasciare che la musica cambi sé stessa.

A proposito di ritmo: tu non conti il ritmo, come pensi alla pulsazione, al battito?

Negli ultimi dieci anni il mio interesse si è concentrato principalmente su cicli ritmici di altre culture e sull’idea di trance connessa col ritmo, su come tramite la ripetizione e il battito, attraverso l’improvvisazione libera che utilizzi pattern, si possano raggiungere altre percezioni. Unfold, Open e Vertigo sono stati forse un po’ più free e probabilmente è per questo che questa volta abbiamo avuto voglia di stare più dentro una griglia ritmica. “Hanging Gardens”, se ci pensi, ha a che fare col jazz-rock, con Steve Reich, con Morton Feldman, con la drum & bass.

Una mia personale curiosità: Conosci il lavoro del regista australiano Rolf De Heer?

Certo, non è quello di Ten Canoes? Un film bizzarro e fantastico.

C’è qualcosa di intimamente bizzarro nell’essere australiano che si riflette nella musica?

Credo che abbia più a che fare con la Nuova Zelanda, questa quirkyness (stranezza, ndr) intima: basta pensare ai Dead C oppure, tornando molto indietro nel tempo, a Ray Columbus & The Invaders. Per quanto riguarda l’Australia c’è una sorta di immobilità, di stillness che ha a che fare con noi e che credo si possa avvertire anche negli AC/DC.

Il primo disco che hai comprato?

Ricordo che la prima band a cui mi appassionai molto erano gli Status Quo e ricordo nitidamente di aver comprato Exodus di Bob Marley. Io e mia sorella eravamo abbonati a un record club.

E il tuo primo ricordo musicale?

Sentire un concerto di una qualche rock band ad una qualche fiera dell’agricoltura. Più tardi invece ricordo come  un’epifania aver ascoltato a Sidney il trio di Alexander Von Schlippenbach con Paul Lovens ed Evan Parker, nel 1981.

Al Météo Festival (rassegna extra-ordinaria di jazz e musiche di avanguardia che ha luogo dal 1972 a  Mulhouse, in Francia) hai suonato con Michiyo Yagi (virtuosa di koto, un’arpa orizzontale giapponese, in passato già osservata speciale di John Zorn) e con Charles Hayward. Cosa puoi dirci di questi due incontri?  

Entrambi sono stati pensati e suggeriti da Fabién Smon (direttore artistico del festival per sei anni, sino a questa edizione); ho incontrato Hayward parecchi anni fa in Svizzera, conosco bene la sua musica, ma onestamente non posso dire che sia stata una grande influenza per me. Per quanto riguarda Michiyo Yagi, non la conoscevo, ma ho ascoltato il suo materiale e ho avuto modo di apprezzare il suo mescolare la musica classica giapponese con le sfuriate di improvvisatori come Peter Brötzmann e Keiji Haino, quindi ero senz’altro predisposto nel migliore dei modi nei suoi confronti e sapevo che avremmo trovato un terreno comune sul quale dialogare. Poi mentre parlavamo mi ha anche detto di essere una grande fan dei Necks: non abbiamo provato, se non per il soundcheck. Mi sentivo a mio agio perché avevo capito che anche lei è interessata a suonare con minime variazioni e in modo lento. Sarebbe interessante poi riflettere su cosa significhi davvero “lento”: lento per te può significare quindici minuti, per me quaranta, per qualcun altro un’ora e mezzo. Con Charles Hayward invece ho deciso di utilizzare anche la chitarra: il giorno prima, durante le prove, per un paio di ore abbiamo imbastito qualche idea guida (il concerto, per chi scrive, è stato deludente, ndr). C’è stato molto contrasto tra i due concerti, abbiamo suonato materiali molto distanti.

Immagina un’altra vita: se non fossi un musicista, cosa faresti?  

Mi occuperei di video-installazioni, qualcosa che abbia fare col tempo, con una transizione da un colore all’altro: qualcosa di non così diverso, alla fine. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che volevo suonare, nella vita; nessuna pressione familiare, fortunatamente. Non ho finito le scuole superiori e mi sono iscritto al conservatorio senza che intervenissero i miei in alcun modo.

Hai collaborato con moltissima gente. Con chi ti piacerebbe farlo ma ancora non è accaduto, per una ragione o per l’altra?

Ho collaborato con molti dei musicisti che ammiro e rispetto ma, ad esempio, non ho mai avuto modo di suonare con Michael Gira.

Sono profondamente convinto che sia anche l’ascoltatore a “fare” la musica, nel momento stesso in cui la ascolta, e credo che questo valga ancora di più per ambiti come quelli in cui vi muovete voi. Ad ogni modo, quando sento The Necks, avverto profondamente nel vostro suono un richiamo a qualcosa che è andato perso, una sorta di nostalgia, non una malinconia, più una visione delle cose, per così dire: quasi una risposta attraverso il suono alle atmosfere da fine di tutto che si respirano in un libro come “La Strada” di Cormac Mc Carthy.

La tua è u’affermazione forte, non posso dire nulla in proposito, perché questo è ciò che ti arriva attraverso i nostri dischi. Posso solo dire che abbiamo sempre avuto voglia di fare in modo che le cose rimanessero interessanti per noi e anche per chi ci ascolta: diciamo che in qualche maniera suoniamo mettendoci nella posizione dell’ascoltatore.

Vi ho visti l’anno scorso a Padova, nella magnifica e perfetta cornice della Sala dei Giganti: funziona sempre così dal vivo? Non vi guardate e Chris Abrahams dà le spalle a te e a Lloyd Swanton?

Sì, non gli piace avere lo strumento tra lui e noi. Non abbiamo bisogno di vederci, ci basta ascoltarci. Una volta avvenne una cosa curiosa: suonavamo all’Opera House a Sidney, successe qualcosa e salirono sul palco gli organizzatori a dirci che dovevamo smettere immediatamente; io e Lloyd li avevamo davanti e dunque ci fermammo, Chris invece continuò perché era di spalle. Non era mai accaduto ma fu molto interessante, e mi andrebbe benissimo anche se qualcuno di noi si mettesse a recitare una poesia in un pezzo, se gli sembrasse il caso di farlo. È come se ci fossero due band: in studio siamo estremamente interessati al processo di composizione, facciamo ampio uso di overdub, dal vivo ci lasciamo semplicemente portare dal flusso.

Quali sono i tuoi batteristi preferiti?

Elvin Jones, Tony Williams, Sly Dunbar e Todd Trainer degli Shellac.

E che mi dici della musica fondata sul groove, del funk, della musica indiana?

Mi piace molto la musica degli altri paesi, credo che l’alap (una delle forme del raga indiano, nello specifico la sezione iniziale di una tipica performance di musica classica dell’India del Nord, ndr) abbia influenzato molto ciò che facciamo con The Necks. Sono un grande fan dell’afrobeat di Fela Kuti e dell’highlife in generale e adoro James Brown: resta un mistero come si sia evoluto, da un momento all’altro, da cantante r&b a quella bomba funk che poi è diventata. Mi piacciono molto anche Sly Stone, Prince e la musica indonesiana.

In conclusione: tre dischi da isola deserta?

Sunship di John Coltrane, Brilliant Trees di David Sylvian, Prayers On Fire dei Birthday Party.