CONVERGE & CHELSEA WOLFE, Bloodmoon: I

Mi piace citare Scrubs nelle recensioni. È un ottimo sistema per rompere il ghiaccio quando sono in difficoltà: la prendo alla larga e faccio un bel collegamento con una serie che piace a tutti (e se non vi piace Scrubs andate a leggere Libero, ve lo meritate).

Avete presente la puntata in cui Cox deve fare la valutazione a J.D.? Dorian è un bravo medico, ma non ha ancora imparato a riconoscere da sé i suoi punti di forza e i suoi difetti. L’episodio si conclude con una memorabile strigliata del Dottor Cox, che sottolinea l’importanza di fare autocritica e sprona il suo allievo a non riposare mai sugli allori.

Volevo che ti fermassi a riflettere su di te e volevo che lo facessi sul serio. In cosa sei bravo, in cosa fai schifo, e volevo che lo mettessi per iscritto! E non perché io lo vedessi, non perché qualcuno lo vedesse, ma perché tu lo vedessi!

Cosa c’entra questa premessa con Bloodmoon: I? Dopo aver ascoltato l’ultimo lavoro dei Converge, le parole di Cox mi sono tornate in mente. Un disco del genere non può nascere a meno che i musicisti coinvolti, in pieno delirio di onnipotenza, non abbiano buttato il proprio spirito critico nel cesso e tirato lo sciacquone. Il mio è un giudizio troppo netto? Proviamo ad analizzare i fatti.

Già in The Dusk In Us si avvertiva una certa stanchezza in casa Converge. Un cambio di rotta, però, dopo una lunga carriera è comprensibile e doveroso: spesso permette alla barca di rimanere a galla, e poco importa se i fan della prima ora disapproveranno. L’importante è costruire il nuovo corso su basi solide, evitando di snaturare la propria personalità.

L’annuncio della collaborazione tra i quattro di Salem, una Chelsea Wolfe da tempo sulla cresta dell’onda e il ritrovato Stephen Brodsky sembrava il preludio a sviluppi interessanti. Mi aspettavo una versione di Bannon e compagni meno rabbiosa, rivista in modo da accogliere le atmosfere oniriche della Wolfe. La presenza di ospiti ingombranti è sempre un fattore di rischio, ma a supervisionare l’impresa ci sarebbe stato Ballou, un signore che, curriculum alla mano, un paio di cosine in fatto di produzione ne sa.

Tutto questo per dire che dietro a Bloodmoon: I non ci sono dei “pivelli”, tanto per usare un termine caro al Dottor Cox. C’è gente navigata, capace di firmare i capolavori assoluti che tutti noi abbiamo consumato a furia di ascolti. Cosa poteva andare storto?

E invece qui di problemi ce ne sono tanti. Troppi e inspiegabili.

Chiariamo subito un concetto: questo non è un disco “di passaggio”, non stiamo assistendo ad alcuna metamorfosi. Ognuna delle parti in causa si limita ad ondeggiare tra materiale riciclato dalla propria discografia e spericolate escursioni in ambienti che non appartengono né alla storia né tanto meno alle caratteristiche dei partecipanti. La seconda traccia “Viscera Of Men” fotografa alla perfezione i difetti di questo lavoro: il pezzo esordisce con un evidente tributo ai Converge che furono, ma dopo nemmeno venti secondi una brusca transizione ci strappa dall’illusione e irrompe una deriva orchestrale poi trascinata fino alla noia. Stessa sorte per “Lord Of Liars”, sulla carta la più interessante del mazzo grazie al refrain vivace, che ben presto naufraga in fiacche contorsioni mathcore e sterili ripetizioni del tema principale.

A colpire è la totale assenza di un filo conduttore capace di dare un senso ai cinquantotto minuti più errabondi della storia della musica. Presi da un trasformismo degno della classe politica italiana, Converge e soci abortiscono sul nascere ogni abbozzo di struttura logica, e il risultato sono undici chimere prive di identità. La prima metà dell’album affonda sotto il peso dei troppi elementi di cui è infarcita, al punto che risulta difficile addentrarsi in un’analisi dei pezzi: aprite la pagina di Wikipedia, cliccate su “una voce a caso” e avrete buone probabilità di imbattervi in una definizione calzante per il trittico “Coil”, “Flower Moon” e “Tongues Playing Dead”.

La fastidiosa sensazione di ascoltare una playlist di Spotify, di quelle che mettete quando avete voglia di musica ma senza concentrarvi troppo sul contenuto, è amplificata da canzoni inserite al solo scopo di mettere a loro agio i due ospiti. “Scorpion’s Sting” è una doom-ballad che esalta la sola Chelsea Wolfe, e ciò non toglie che sarebbe stata scartata persino dai b-side di Abyss o Hiss Spun. “Failure Forever” è invece un piacevole tributo ai Cave In di un Brodsky altrimenti anonimo; peccato che appaia del tutto slegata dal contesto.

In mezzo a questo casino, isolati qua e là tra sconnesse pulsioni sinfoniche e improvvise sparate technical metal, galleggiano brevi momenti di ispirazione, a testimonianza delle possibilità non colte dagli artisti. Sarebbe bastato insistere sulle atmosfere della title-track e sviluppare meglio i rari passaggi in cui il connubio vocale Bannon-Brodsky-Wolfe ha dato qualche frutto (“Crimson Stone”) per ottenere perlomeno un prodotto dal mood coerente. Il nostro “supergruppo”, che degli autori di Jane Doe mantiene solo il nome, cede invece alle lusinghe delle facili scorciatoie e all’autocompiacimento. Bloodmoon: I è un puzzle difficilmente risolvibile, gonfio di riempitivi utili solo a nascondere la pochezza dell’idea alla base, sempre che ce ne sia mai stata una al di là delle esigenze discografiche. L’ho riascoltato diverse volte, lambiccandomi il cervello nel tentativo di giustificare un risultato così approssimativo, scomponendolo alla ricerca di elementi a cui aggrapparmi per non rigettarlo in toto. La triste realtà è che non c’è nulla che io riesca a salvare.

Forse il mio è solo lo sfogo di un fan tradito dalla svolta easy listening dei paladini dell’hardcore, o la lagna di uno che i traguardi dei Converge non li vedrà mai manco col binocolo. Proprio in virtù del loro glorioso passato, non mi capacito del fatto che gente come Bannon e Ballou abbia approvato un simile strazio. Se potessi incontrarli, esprimerei il mio disappunto con l’ennesima citazione del Dottor Cox: mi avete fatto così arrabbiare che potrei addirittura sentirmi male.