“Come into my web”: il racconto del Dark Mofo Festival 2018 (Hobart, Australia)

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La prima cosa che un visitatore vede dopo che l’aeroplano tocca l’asfalto di Hobart è una delle apparentemente mille insegne al neon che ti invitano a unirti al lato oscuro. Crea aspettativa, e ti dà l’idea di quanto il Dark Mofo Festival tenga in pugno la città e i turisti.

Durante il Festival quest’insegna rossa luminosa sta dappertutto a Hobart, la città sull’isola più a sud dell’Australia. Ci sono momenti in cui la presa dell’evento su questo posto comincia a diventare di proporzioni religiose, come se si trattasse di un carnevale romano deviato, un baccanale per chi venera il vino, l’ubriachezza e i comportamenti degeneri in sintonia col battito dei tamburi e lo scontrarsi dei piatti. Dark Mofo una volta era addirittura considerato intimamente sovversivo e nemico della società, un segno della decadenza delle classi agiate. Ma com’è potuto succedere tutto questo in quella che tempo fa era considerata la più conservatrice delle città australiane?

A un certo punto, non si sa precisamente quando, il Dark Mofo ha conquistato la maggior parte degli spazi pubblici di Hobart, trasformandoli in palchi, spazi per l’arte, dancefloor. Comincia come al solito, con film d’autore proiettati in vecchie chiese o in sale comunali, come il muto “Rapture” di Angelica Mesiti messo in loop nella cosiddetta “Black Temple Gallery” oppure – presso la “Detached Gallery” vicino al porto – “Liminals” di Jeremy Show, un film in bianco e nero su di una specie di collettivo artistico di giovani che vagabondano esprimendosi rumorosamente in gruppo. Alla Domain House c’è un’installazione permanente di chitarre e ampli di Lou Reed chiamata “Drone”, che si spiega abbastanza da sola: chi la visita è invitato a interagire col feedback del posto, uscendo e rientrando come meglio crede. Nel frattempo, compare a intervalli regolari in città “Terror Nullius” del collettivo artistico Soda_Jerk, un “revenge movie” che riutilizza completamente la narrativa nazionale rimontando altri film australiani.

Il party notturno “Night Mass” è stata una manifestazione ancora più estrema di quest’appropriazione di spazi. Proprio nel mezzo del Central Business District di Hobart, è stata bloccata un’intera strada e più edifici, cantieri e gallerie sono stati trasformati in bar e piste da ballo: una complicata catacomba con più punti decorati con fuochi e vetri rotti, con la gente che faceva festa su delle impalcature o trovava il modo di scalarle per raggiungere in alto dei sfarzosi bar a tema. Il caos era parte dell’effetto, e nonostante apparentemente a suonare ci fossero buoni dj e band, è stato quasi impossibile avere un’idea di ciò che stava succedendo.
Le performance dell’hard techno producer Vril, dell’artista hip hop indigeno Baker Boy e dei dark ambient producer Demdike Stare (la cui musica ha l’effetto ipnotico di un treno merci che passa sui binari di notte) sono state le benvenute, ma erano anche difficili da trovare, come uccelli esotici in un parco sovrappopolato.
I più pigri e confusi si sono inevitabilmente trovati al di fuori, a bere birra intorno un fuoco. Per molti australiani già questo sembra un passaggio al lato oscuro, dato che entrare in uno di questi posti è percepito come una trasgressione delle molte regole prodotte da alti livelli di sviluppo e di gentrificazione. Sono regole che rendono molto difficoltosa un’attività pubblica in Australia, però sembrano aver saltato Hobart, forse perché in passato tutto ha saltato Hobart. Ma la mancanza di sviluppo economico si direbbe la condizione necessaria a questo tipo di dissolutezze, dato che ai locals non dispiacciono i dollari dei turisti e l’intrattenimento, e chi arriva da fuori è molto attratto da uno dei festival più interessanti del Paese, che attira talenti unici che di rado visitano l’Australia e li incoraggia persino a provare nuovi lavori.

Charlemagne Palestine

Circondato dai suoi animali impagliati, indossando più colori che poteva, Charlemagne Palestine ha offerto un lungo set “in mi” sul piano e sull’organo della Hobart Town Hall – qualcosa molto nello spirito del Dark Mofo – trasformando tutto in una sorta di gioco divertente. Lui crea un ambiente immaginario – una totale mise-en-scène – in modo che il pubblico possa fantasticare d’essere altrove. Tutto è qualcosa con cui si può giocare. Gli animali sono messi in posa, i bicchieri vengono fatti tintinnare e tintinnare, mezzi pieni, mezzi vuoti, il loro risuonare è semplicemente parte dello show. Dopodiché Palestine comincia con melodie semplici che avrebbe potuto comporre per un carillon. Dà conforto, ma è anche malinconico, come una ninna nanna per adulti che stanno affrontando una perdita. Le note ripetute, in combinazione con i mondi colorati che allestisce, fanno sì che per l’audience sia facile smarrirsi: un piacere semplice, ma che sembra apprezzato.

Il Berlin Atonal ha curato due serate al Mac2, un ampio spazio su una delle banchine del porto. Nel corso di queste notti artisti quali Fis e Pyur hanno proposto lavori come “7 Blue Stones”, una musica di spaventosa intensità che mescolava campionamenti vocali, melodia e feedback rombante. In qualche modo il fatto che il pubblico fosse seduto ha rubato all’insieme parte della sua immediatezza: persino gli Autechre, che hanno suonato nel nero più profondo, sono sembrati in un certo senso meno interessanti a causa della generale inerzia della gente.

Il giorno successivo, in quello stesso luogo, l’evento “Borderlands” è stato più vibrante, con una line-up comprendente artisti pionieristici come Pan Daijing, William Basinski, Roly Porter (con MFO) e Merzbow.

Basinski

Il compositore d’avanguardia con base a Los Angeles William Basinski ha proposto drone profondi, perforati con melodie dolci grazie a frequenze contrastanti, lunghe e sostenute, che cambiavano solo in modo incrementale, producendo l’impressione di un viaggio attraverso un paesaggio molto vasto. Prevedibilmente lo spunto per questo set era lo Spazio, l’individuazione di un’increspatura nello spazio-tempo, nello specifico la registrazione di due buchi neri che orbitano così vicino l’uno intorno all’altro fino a che non si scontrano ed emettono onde di energia per tutto l’universo, più potenti della luce di tutte le stelle. Incredibile a dirsi, questo avvenimento è stato davvero registrato di recente da degli astronomi, Basinski l’ha sentito e ha trovato l’ispirazione per il suo ultimo lavoro. Un field recording dallo Spazio è diventato la base di una composizione originale e stupefacente, una specie di storia d’amore tra due forze potenti e in contrasto. Il set è stato eccezionalmente rilassante, come se fossimo stati spediti sulla superficie di Marte, una superficie spoglia, e ci fosse stato chiesto di immaginare un nuovo paradiso.

Basinski ha anche dato una mano alla Tasmanian Symphony Orchestra per una performance dei suoi Disintegration Loops, con arrangiamenti di Maxim Moston. The Disintegration Loops, il famoso quadruplo album di Basinski, generalmente non è utilizzato come base per uno score orchestrale. L’arrangiamento della Tasmanian Symphony Orchestra di questo capolavoro ambient (in sostanza lo sfumare ripetuto di un nastro in disfacimento), ha trasmesso un senso di rigenerazione e di inquietudine. Anziché dipendere dallo sparire ovattato dei punti focali delle composizioni elettroniche, i musicisti hanno utilizzato ripetizioni e intensità per evocare gli originali, ma – al posto di una malinconia infinita – hanno evocato in modo diverso l’idea di disintegrazione, soffermandosi e indulgendo sulle note nel momento in cui queste sembravano svanire, senza distrarci con quelle successive.

Waterborne

Un altro lavoro basato su nozioni di decadimento e decomposizione era “Waterborne”, un pezzo “audio environment” di French & Mottershead, un viaggio in barca e un tour audio fuori dal Franklin Wharf. Ti portano dieci minuti giù per il canale e poi lasciano che la barca galleggi mentre i passeggeri fissano l’acqua e ascoltano in cuffia un racconto che descrive il decomporsi graduale del loro corpo toccato dalle onde. Il pezzo è molto bello e a tratti persino divertente: “The muscles controlling your stomach and intestines slacken, your sphincters open and the contents of your bowel and bladder leak out”. Questo lavoro ti lascia con l’idea che la morte non sia la fine della vita, ma in realtà quello che è davvero, semplicemente l’inizio di una serie di trasformazioni collegato ai tanti ecosistemi che abitiamo. Tutto questo contribuisce all’atmosfera carnevalesca del Dark Mofo, sia incoraggiandoti a essere indulgente con te stesso (moriremo tutti comunque), sia provocando quella sensazione di disagio alla quale puntano molti degli artisti che ospita.

Con “Retribution” Tanya Tagaq ha provocato l’audience servendosi delle idee pregiudiziali della gente su cosa considerare inusuale. Il suo throat singing inuit, accompagnato da archi e tamburi, è iniziato con uno spoken word, con enfasi sulla consonante finale e sulle “esse”, soffermandosi su parole come “squander”, “suck”, “sweet”. Ma ha subito lasciato la scena a un cantato in crescendo ripetitivo e ipnotico, in altre occasioni un gorgheggio gutturale e intenso, raggiungendo il climax di una performance che ha profondamente sconvolto le nostre convinzioni interiori riguardo a quali suoni e azioni siano accettabili per una donna sul palco.

Pan Daijing

Di nuovo all’evento “Borderlands”: dove Basinski ci ha chiesto di sederci, Pan Daijing ha detto che dovevamo alzarci. Dopo la sonnolenza della notte precedente, si è trattato di una transizione vigorosa, resa possibile da strati di rumori, da ritmi che si dispiegavano in momenti diversi e con diversa intensità. La sua musica è stata in grado di assorbire totalmente, ma ha lasciato momenti di riposo, quando il suo modo di cantare operistico ha cercato di sollevarsi sopra il manto nero che ci aveva gettato sopra. In completo contrasto con il rilassamento ambient di Basinski, la sua musica era così forte e potente che non c’era via d’uscita, modi per distrarsi, è stato un lento avvolgerci per poi spazzarci via tutti.

Quella sera, dopo il set di Pan Daijing c’è stato quello del pioniere noise Merzbow, il cui scartavetrare avanti e indietro a diverse frequenze e a diversi livelli ci ha spinto di nuovo in quel buco nero dal quale Basinski ci aveva tirato fuori. Succedono molte cose in simultanea, ma i ritmi sono sorprendentemente ondeggianti e di conforto, come se essere travolto potesse metterti a riposo. Per essere qualcuno famoso per produrre qualcosa di abrasivo, Merzbow ha ottenuto un pubblico silenzioso e meditabondo.

Molti altri eventi hanno utilizzato il suono in modo provocatorio e disturbante, persino per un pubblico preparato a ricevere provocazioni. “Animal”, di Nicci Wilks e Kate Sherman, era una pièce teatrale su due sorelle che vivono in una città piccola e si preparano a essere violentate. È qualcosa di molto malaugurante, perché noi ci trovavamo in una piccola città, una di quelle che solo pochi anni fa era nota per la sua chiusura mentale e la sua omofobia (l’omosessualità è stata decriminalizzata qui solo nel 1997). Chissà quali contraddizioni si nascondono sotto la superficie… Mentre le due attrici svolgevano vicendevolmente riti di violenza sui loro corpi, così da essere preparate a violazioni peggiori che sarebbero potute accadere loro, in città ci sono stati spari veri, dato che un bandito rimasto anonimo ha sparato 5 colpi di pistola contro la porta di un bar dietro l’angolo.

Hobart è forse il solo posto in Australia in cui un festival come il Dark Mofo poteva iniziare e avere successo. Dipende dalla visione e dall’appoggio del ricco ed eccentrico David Walsh, che – come il figlio testardo di un barone facoltoso – è tornato dai suoi viaggi con un certo gusto per l’arte e la dissolutezza, mettendo in piedi una stravagante galleria d’arte e organizzando eventi che potessero mettere in imbarazzo i suoi genitori. Forse è questa la causa scatenante del dibattito aperto tra lui e il Lord Mayor di Hobart sul contenuto del festival. Nel corso dell’evento il sindaco ha risposto a reclami sulle croci rovesciate piazzate sul lungomare, minacciando di tagliare i finanziamenti e dissociarsi dall’intera manifestazione in quanto generatrice di una “cultura insalubre”. Walsh apparentemente ha replicato come un qualunque bambino capriccioso, dicendogli di andarsene col suo denaro, perché il festival sarebbe diventato noioso se il potere politico ci avesse messo becco. Ma se ne andrà anche lui un giorno. Il successo di Walsh è dovuto in un certo senso al fatto che lui è l’unico agente di sviluppo a Hobart. Senza concorrenza ha la piena libertà di trasformare alcuni spazi in enclavi esclusive e di lusso, e di lasciarne altre in macerie. Hobart è una città meravigliosa che sembra rispondere bene a questa contraddizione, ma mi chiedo se dare a Welsh potere infinito non sia un po’ pericoloso. Non per via delle croci rovesciate o perché la città è inzuppata nel neon rosso, ma perché non c’è nessuno a fargli da contraltare. Il Dark Mofo è uno dei festival più interessanti e fertili in Australia, ha trasformato Hobart da isolata città conservatrice in destinazione attraente per artisti internazionali e in una casa decente per i talenti locali. Detto questo, se ogni culto ha bisogno di un leader, deve anche sopravvivere alla sua inevitabile scomparsa.