Circuiti. Dallo studio di fonologia al live electronics

Circuiti
Lo sviluppo e l’applicazione di strumentazioni che potessero modificare, riprodurre o addirittura creare ex-novo sonorità utilizzabili a fini compositivi ed esecutivi affonda le sue radici già negli albori del secolo scorso. La parentesi Tardoromantica e il Neoclassicismo stavano oramai per chiudersi definitivamente e la rivoluzione industriale aveva dato uno stimolo decisivo alle istanze d’innovazione che prepotentemente venivano alla ribalta in tutti gli ambiti della vita sociale e culturale del periodo. L’esigenza di sonorità inedite e le scoperte tecnologiche stimolano fin da subito i musicisti, agli occhi dei quali si aprono orizzonti inesplorati.

Già a inizio Novecento, infatti, nascono ingombranti macchinari proto-elettronici come il Telharmonium di Taddeus Cahill (1897), l’Intonarumori di Luigi Russolo (1913) e le Onde Martenot di Maurice Martenot (1928; spesso utilizzate dal compositore Olivier Messiaen), che sfruttano la corrente elettrica alternata e altre pionieristiche tecnologie del periodo (il telefono, ad esempio).

In breve tempo, però, si deve far fronte all’esigenza di ottenere strumenti di dimensioni più ridotte, da poter utilizzare anche al di fuori dei laboratori-officine dove vengono messi a punto. Nasce così nel 1919 il thereminvox o Theremin, che prende il nome dal suo inventore Léon Theremin. Composto da due antenne innestate sopra e a lato di una scatola che contiene i componenti elettrici, il Theremin viene controllato allontanando e avvicinando le mani a esse: verticalmente si cambia l’altezza del suono, orizzontalmente si regola l’intensità e le sonorità prodotte sono simili a quelle di un violino o di un soprano. Nel 1935 fa invece la sua comparsa sul mercato il primo organo elettrico messo a punto da Laurens Hammond; solo pochi anni dopo lo stesso Hammond svilupperà la sua invenzione dando vita al Novachord, il primo sintetizzatore elettronico polifonico, che cadrà presto nel dimenticatoio a causa del costo elevato. Tuttavia siamo ancora ben distanti dal poter definire “elettronica” la musica prodotta da questi strumenti, rimanendo peraltro tendenza comune in molti degli esempi citati quella di “imitare” i suoni prodotti da strumenti acustici tradizionali.

Schaeffer, Stockhausen e la ridiscussione del suono

Le prime esperienze che condurranno in pochi anni a un’emancipazione della musica elettronica ed elettroacustica coincidono con la nascita nei primissimi anni Cinquanta, in Europa, di alcuni centri di studio e ricerca esclusivamente dedicati allo sviluppo di attrezzature elettroniche per la produzione di sonorità inedite, e della conseguente applicazione delle stesse nell’ambito dell’allora nascente musica di ricerca. Di fondamentale importanza in questo percorso evolutivo del suono sintetico sarà anche il perfezionamento degli strumenti di registrazione e riproduzione che utilizzavano il nastro magnetico, nonché l’introduzione di altre attrezzature fonografiche al fine di arricchire il panorama timbrico.

Nel 1948 nasce a Parigi lo Studio d’Essai, che solo sul finire degli anni Cinquanta prenderà il nome di GRMC (Groupe de Recherches de Musique Concrète). È in questo contesto che si formeranno i concetti di musique concrète e di approccio elettroacustico alla materia sonora. Per i bruitisti francesi il nastro magnetico diviene strumento indispensabile per immagazzinare e riutilizzare i suoni catturati nell’ambiente circostante. La conseguente manipolazione del materiale avviene tramite primordiali attrezzature ancora totalmente analogiche. L’inventore e teorico della musique concrète è l’ingegnere e tecnico del suono Pierre Schaeffer. Schaeffer si concentra sulla percezione pura dell’oggetto sonoro e la sua sfida è proprio quella di abbattere la differenza tra un tipo di attenzione ordinaria rivolta ai suoni e una propriamente estetica; di eliminare insomma la differenza tra suoni ordinari e suoni musicali.

Nello stesso periodo (1949-1950), a Colonia, inizia a muovere i primi passi quella che può essere considerata forse come l’esperienza che più di tutte ha contribuito alla definizione di musica elettronica come la intendiamo al giorno d’oggi. Sotto la direzione di Herbert Eimert e Karlheinz Stockhausen, lo Studio di Musica Elettronica dell’emittente radiotelevisiva WDR di Colonia diviene rapidamente un riferimento e un punto d’incontro internazionale, che ospita compositori del calibro di Ernst Krenek (Austria/USA), György Ligeti (Ungheria), Franco Evangelisti (Italia), Cornelius Cardew (Inghilterra), Mauricio Kagel (Argentina) o Nam June Paik (Corea). Oltre a registratori a nastro, filtri e unità di riverbero, qui s’impiegano attrezzature molto innovative come i generatori di suono dotati di onde sinusoidali, onde quadre e generatori di rumore.

A proposito delle ricerche musicali che inizia a sviluppare proprio nello studio di Colonia, Stockhausen dichiara che si giunse a questa musica quando, a partire dal 1950, si cominciò a mettere in discussione tutto ciò che costituisce la musica europea: non solo il linguaggio musicale, la sua grammatica i suoi vocaboli, ma anche il materiale sonoro finora usato, i suoni stessi. Già a cavallo del secolo si voleva dire qualcosa di nuovo, ma si continuava a servirsi dei vecchi segni sonori. Si arrivò così ad una contraddizione tra la natura fisica dei suoni strumentali usati fino ad allora e le nuove concezioni formali della musica. Sarà lo stesso Stockhausen, tra il 1955 e il 1956, a realizzare “Gesang Der Jünglinge”, primo tentativo del compositore tedesco di operare su un materiale pre-esistente, in questo caso la voce di alcuni fanciulli incisa su nastro magnetico. Questa composizione eserciterà un’enorme influenza sugli autori sperimentali del periodo e su quelli successivi, rappresentando un passaggio cruciale della musica del Novecento e imponendo un modello di convergenza stilistica dal quale nasceranno nuove e importanti esperienze di musica elettroacustica e concreta: “Thema. Omaggio a Joyce” (1958) e “Visage” (1961) di Luciano Berio, “Orient-Occident” (1960) di Iannis Xenakis, “Mescalin Mix” (1960-62) e “Bird Of Paradise” (1963) di Terry Riley, “La Fabbrica Illuminata” (1964) di Luigi Nono, “It’s Gonna Rain” (1965) e “Come Out” (1966) di Steve Reich.

Karl Heinz Stockhausen negli anni Cinquanta

Sotto l’influenza dello Studio di Colonia nascono anche in Italia, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, alcuni centri che si occupano di musica elettronica e delle pratiche compositive ed esecutive ad essa connesse. I più importanti sono il Centro di Fonologia della RAI di Milano, fondato nel 1955 da Bruno Maderna e Luciano Berio in stretta collaborazione con i tecnici Alfredo Lietti e Marino Zuccheri, e l’NPS (Nuove Proposte Sonore), fondato a Padova nel 1966 da Ennio L. Chiggio, Teresa Rampazzi, Memo Alfonsi e Serenella Marea. Il manifesto programmatico (scritto da Chiggio e Rampazzi) presenta dichiarazioni dall’impatto talmente rivoluzionario da essere equiparabile a quello delle più spregiudicate avanguardie d’inizio secolo: lo strumento ha esaurito le sue possibilità, è stato violentato, distrutto (…) l’interprete non è più il portatore del messaggio irripetibile, l’ascolto del nastro ripetibile ad oltranza demistifica l’ascolto (…) i nuovi sistemi elettronici estendono lo spazio udibile aumentandone le dimensioni.

Tuttavia i centri di ricerca fonologica che nel frattempo operavano in Europa (ricordiamo anche lo Studio sperimentale della Radio Polacca, fondato nel 1957 a Varsavia da Jòsef Patowski e Krysztof Penderecki) continuano a intendere la musica elettronica e i mezzi per la sua produzione come un oggetto da laboratorio quasi totalmente distaccato dalla prassi esecutiva e rivolto esclusivamente a una prospettiva di ricerca e sperimentazione, che si risolve nell’incisione discografica fissata su supporto.

Uscire allo scoperto: Varèse e Cage

È proprio a partire dalla metà degli anni Cinquanta che l’esperienza elettronica ed elettroacustica nella musica sperimentale e di ricerca inizia a rivolgersi verso contesti poetici ed estetici che esigevano una maggiore coincidenza fra l’aspetto compositivo e quello esecutivo. In realtà, già nel 1933 Edgard Varèse realizza “Ionisation”. Eseguita per la prima volta alla Carnegie Hall di New York il 6 marzo dello stesso anno, prevede, oltre ad un ensemble di percussioni, anche l’utilizzo di due sirene e la registrazione su disco fonografico del ruggito di un leone. Quest’opera costituisce per Varèse la base su cui sviluppare alcuni anni dopo due composizioni come “Déserts” (1958) per fiati, pianoforte, percussioni e nastro magnetico, e “Poème Électronique” (1958), per solo nastro magnetico. Il lavoro di Varèse sarà di fondamentale importanza, perché rappresenta, fra le altre cose, uno dei primi esempi in assoluto di live-electronics. Unico precedente è quello del compositore romano Ottorino Respighi, il quale già nel 1924 – per la sua composizione Pini di Roma – s’era servito di dischi fonografici che contenevano il canto di alcuni uccelli.

D’importanza altrettanto fondamentale saranno i cinque “Imaginary Landscape” che John Cage compone fra 1939 e 1952. Quattro di questi lavori, accostabili a quelli di Varèse citati sopra, prevedono l’utilizzo di giradischi a velocità variabile e radio a transistor insieme con strumenti acustici come pianoforte e percussioni. I dischi utilizzati contengono i suoni di toni di frequenze ad altezze differenti, utilizzati in genere per testare le apparecchiature radio. Manipolando la velocità del giradischi si provoca un innalzamento o un abbassamento dell’altezza (pitch) dei suoni incisi su disco. Dopo aver utilizzato notazioni convenzionali fissate su pentagramma per i primi tre dei suoi “Imaginary Landscape”, con il quarto della serie, composto nel 1951 (per dodici apparecchi radio e ventiquattro esecutori), Cage fa un passo in avanti verso l’indeterminatezza dell’esecuzione. Ecco la descrizione che ne dà Michael Nyman nel suo testo del 1974 “La Musica Sperimentale”:

le operazioni casuali hanno deciso i livelli del volume, le durate e la sintonizzazione delle stazioni sulle dodici radio. L’imprevedibilità era garantita dal fatto che i tempi, le lunghezze d’onda e le variazioni di volume erano comuni a tutte le performance ma il brano era comunque diverso perché la musica trasmessa sulle frequenze date era ogni volta diversa e dipendeva da fattori al di fuori dal controllo immediato di Cage.

È quindi attraverso l’indeterminatezza che questi primi esperimenti elettrici/elettronici di Cage acquistano una loro piena consapevolezza. L’elemento tecnologico diventa così complemento ideale al progetto di rottura connaturato a tutta la sua produzione artistica.

Fra il 1952 e il 1953, Cage realizza “Williams Mix” utilizzando esclusivamente le registrazioni su nastro magnetico di circa seicento suoni diversi, divisi in sei categorie dalle quali attingere attraverso i procedimenti casuali dell’I Ching (l’antico libro degli oracoli cinese). Questo lavoro precede di qualche anno due delle opere proto-elettroniche più importanti della produzione cageana dei tardi anni Cinquanta: “Fontana Mix” (1958) e “Cartridge Music” (1960).

“Fontana Mix” prevede un sistema compositivo, utilizzato per la prima volta nel 1957 nella stesura del “Concerto Per Piano E Orchestra”, che consiste di dieci fogli e dodici trasparenze. I fogli contengono ciascuno sei linee curve; delle dodici trasparenze, dieci contengono punti dispersi casualmente, una ha una griglia e una ha solo una linea retta. Sovrapponendo le trasparenze con punti ai fogli con le curve e interpretando il tutto con l’aiuto della linea retta e della griglia, si possono ottenere indicazioni compositive. Con questo sistema, fra il ‘58 il ‘59, Cage ha realizzato, presso lo studio di fonologia della RAI di Milano con l’assistenza di Marino Zuccheri, i due nastri che tradizionalmente compongono “Fontana Mix”. Ha inoltre composto “Water Walk” e “Sounds Of Venice”, ambedue del 1959, “Aria” (1958), “Theatre Piece” e “WBAI”, ambedue del 1960. Il metodo utilizzato consiste in una serie di indicazioni liberamente combinabili per la regia del suono in brani che coinvolgono registratori, controlli di volume e tono e altoparlanti.

“Cartridge Music” è una composizione per piccoli suoni amplificati e un numero indeterminato di giradischi e altoparlanti. La parola cartridge (cartuccia) è riferita all’astuccio metallico dei microfoni contenuti nei vecchi grammofoni, nei quali si inseriva la puntina (needle) in corrispondenza dell’apertura. In “Cartridge Music” un esecutore inserisce alcuni piccoli oggetti, come fiammiferi, fili, piume e altro, dentro la cartuccia. Tutta l’attrezzatura è utilizzata tramite microfoni a contatto che vengono connessi ai vari oggetti in questione, i suoni sono tutti amplificati e controllati dagli esecutori. Il numero degli esecutori deve essere, al massimo, uguale al numero delle cartucce e, in ogni caso, non più del doppio delle stesse. Ogni esecutore crea la sua parte attenendosi al materiale stabilito dal compositore: venti fogli numerati con forme irregolari (il numero delle forme corrisponde al numero dei fogli), quattro trasparenze, una con dei punti, una con dei cerchi, un’altra con un cerchio segnato come un orologio fermo e l’ultima con una linea curva punteggiata, alla fine della quale si trova un cerchio. Questi lucidi vengono sovrapposti sopra uno dei venti fogli, in modo da creare una “costellazione” da cui dedurre la parte seguente. Il suono che ne risulta può essere inteso come rumore, certe volte semplice, altre estremamente complesso: in questa composizione tutti i suoni, da quelli più consueti a quelli più inaspettati, sono accettati.

L’esperienza compositiva e performativa di queste opere pensate per l’utilizzo di apparecchiature elettriche ed elettroniche condurrà lo stesso Cage a paragonare la composizione all’attività di un impianto di amplificazione, che sia fatto di componenti elettronici o di simili ‘componenti’ (scale, controlli di intervallo, etc.) nella mente umana.

Costruirsi gli strumenti: Mumma, Behrman, Lucier

Su questa linea di pensiero prosegue a metà anni Sessanta l’attività di Gordon Mumma, ed è con lui che prende definitivamente forma il concetto e la pratica del live electronics. Pioniere dell’arte multimediale fin dagli anni Cinquanta, Mumma contribuirà a fondare il Cooperative Studio for Electronic Music di Ann Arbor e il ONCE Festival of Contemporary Music, che si terrà sempre nella città del Michigan. Mumma si specializzerà fin da subito nella realizzazione e nello sviluppo di quelli che lui stesso chiamerà cybersonic instruments, i cui circuiti, oltre a funzionare in modo analogo al feedback, sono anche dei dispositivi che modificano il suono degli strumenti acustici, attivandoli attraverso particolari sistemi di amplificazione e modulatori ad anello.

“Hornpipe” (1967) è forse l’esempio più rappresentativo di questo approccio. Nasce dall’interazione fra il performer, un sistema cibersonico e la risonanza della sala di esecuzione: al corno francese suonato dallo stesso Mumma è collegata una console che si sintonizza sul feedback della sala e reagisce ai suoni emessi dallo strumento. Tale console è una sorta di computer analogico indossato dal musicista sulla cintura, in modo da rivelare chiaramente che l’elettronica è parte integrante ad estensiva del performer e del suo strumento. Il corno stesso è modificato con varie ance al posto del bocchino normale e con valvole riposizionate che consentono al suono di uscire da parti diverse dello strumento. Ecco cosa scrive Michael Nyman a proposito di “Hornpipe”:

La circuiteria della console rileva le risonanze del corno nello spazio circostante e si programma in modo da completarle. Durante questa regolazione alcuni circuiti si sbilanciano e tentano di ribilanciarsi, nel processo nascono combinazioni che producono una risposta sonora puramente elettronica. Questa risposta, trasmessa alle casse acustiche, a sua volta produce tre ulteriori attività sonore: il corno unito ai suoni elettronici, sequenze elettroniche composte da lunghe risposte cibersoniche e rumori elettronici articolati direttamente da suoni prodotti dal corno. La tecnologia elettronica è messa così a frutto in maniera unica: gli strumenti cibersonici non sono ‘applicati’ a uno strumento come accade invece per l’amplificazione, progettata appositamente per ottenere un risultato musicale particolare; qui siamo di fronte ad una forma di composizione.

Sarà lo stesso Mumma, insieme con David Behrman, Robert Ashley e Alvin Lucier, a fondare nel 1966 il collettivo chiamato Sonic Art Union, la cui peculiarità sarà la pressoché totale autonomia nella costruzione delle apparecchiature che ciascuno di loro userà per eseguire le proprie opere, consolidando così quella tendenza, nata con Cage ma comune a gran parte della musica sperimentale sia americana sia europea dei Sessanta e Settanta, che vede delinearsi una nuova figura di compositore, il quale diviene il primo, e forse più credibile, esecutore delle proprie opere. Di fondamentale importanza per lo sviluppo di quella pratica oggi indicata con il termine circuit bending (cioè il modificare in maniera creativa, attraverso semplici cortocircuiti, apparecchi elettronici a basso voltaggio come tastiere giocattolo, batterie elettroniche ed effetti per chitarra, allo scopo di generare suoni inediti) sarà anche il lavoro di David Behrman, ingegnere del suono noto per alcuni capolavori del minimalismo americano come “A Rainbow In Curved Air” di Terry Riley e pioniere della computer music interattiva. Behrman comincerà a utilizzare il fenomeno acustico del feedback in maniera controllata. In “Wave Train”, del 1966, si concentra su delicate sonorità prodotte da un microfono a contatto che, posto sulle corde di un pianoforte, provoca un feedback in seguito all’innalzamento del volume; la conseguente oscillazione degli altoparlanti provoca un secondo feedback che induce le corde a risuonare a loro volta, inviando il suono così prodotto nuovamente alle casse tramite un microfono. Un procedimento analogo informa un’altra sua composizione dello stesso anno, intitolata “Players With Circuits”. Sempre a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, Alvin Lucier, altro membro del Sonic Art Union, darà il via a un percorso di ricerca sui suoni prodotti da ambienti ‘privati’ o naturali che, come lui stesso precisa, “non raggiungerebbero mai, in circostanze normali, le nostre orecchie”. “Music For Solo Performer” (1965) rappresenta uno dei primi e più calzanti esempi di quest’approccio, essendo una delle prime composizioni che sfrutta l’ambiente interno dello stesso esecutore (performer) come fonte da cui ricavare i suoni necessari a creare l’impalcatura del brano. Alcuni piccoli elettrodi applicati alla testa dell’esecutore raccolgono le onde alfa prodotte dalla superficie del suo cranio, producendo così un’onda a basso voltaggio di circa 10Hz. Il segnale viene quindi amplificato da un’apparecchiatura hi-fi e diffuso tramite altoparlanti, i quali – innescando un feedback – fanno risuonare varie percussioni dislocate nell’ambiente in cui si svolge la performance. L’aspetto teatrale di “Music For Solo Performer” è di fondamentale importanza: la preparazione che precede l’esibizione, l’apertura e la chiusura degli occhi del performer come segno di inizio e fine del tutto, e ancora altri particolari “visivi”, diventano così parte integrante dell’opera. In queste parole dello stesso Lucier possiamo individuare una sintesi del suo lavoro:

consideravo il ‘tuono silenzioso’ delle onde alfa estremamente bello, perciò, invece di rovinarlo processandolo, scelsi di usarlo come forza attiva allo stesso modo in cui si usa la potenza di un fiume

Nello stesso periodo di attività del Sonic Art Union (1965-70) anche in Europa musicisti e compositori vicini agli ambienti della musica di ricerca si iniziano ad organizzare in gruppi e collettivi collaborando a strettissimo contatto l’uno con l’altro, spesso seguendo una comune linea estetica che rendesse il prodotto sonoro finale come la risultante dell’unione di sinergie comuni. Ad esempio, il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, fondato a Roma nel 1964 da Franco Evangelisti, coadiuvato dai compositori come Egisto Macchi, Ennio Morricone, Mario Bertoncini e Walter Branchi, è dedito alla realizzazioni di musiche totalmente improvvisate, ma realizzate comunque tramite una strumentazione acustica di derivazione orchestrale (pianoforte, percussioni, ottoni, etc.) che tendeva tuttavia a conferire un gusto euro-colto ed accademico, e il gruppo AMM, fondato nel 1965 a Londra da Cornelius Cardew, Keith Rowe, Lou Gare e Eddie Prevost che sviluppava le esperienze jazzistiche e sperimentali dei quattro, proiettandole verso una forma di improvvisazione radicale dal carattere spesso fortemente convulso, quasi selvaggio. 

Ma l’esperienza che forse più di tutte segnerà un punto di non-ritorno nell’ambito dell’utilizzo dal vivo di apparecchiature elettroniche sarà quella del collettivo italo-americano M.E.V. (Musica Elettronica Viva) fondato a Roma nel 1966 da Alvin Curran, Frederic Rzewski, Richard Teitelbaum e Allan Bryant, ma che ha visto alternarsi al suo interno collaboratori provenienti da esperienze affini come gli stessi Sonic Arts Union e AMM. Ecco alcune note di presentazione da leggere come un manifesto programmatico del gruppo:

Cassette a nastro, elettronica complessa, sintetizzatore Moog, amplificatore di onde cerebrali, miscelatori di fotocellule per momenti di suono nello spazio, sono combinati con strumenti tradizionali, oggetti quotidiani e l’ambiente stesso, amplificati o meno per mezzo di microfoni a contatto. I suoni possono avere origine dentro o fuori dallo spazio di esecuzione-ascolto e possono muoversi liberamente al suo interno e attorno ad esso. Possono essere presenti jazz, rock, musiche primitive ed orientali, tradizione classica e occidentale, suono organico e verbale sia individuale che collettivo

In MEV il concetto di improvvisazione collettiva e avulsa da qualsiasi schema precostituito sarà sviluppato, oltre che sul piano sociale e di interazione fra gli esecutori, anche nel rapporto che gli stessi instaurano con gli spettatori, sfruttando in certi casi la loro capacità performativa “inconscia”: i sedili su cui siedono, a loro insaputa, sono talvolta dotati di microfoni, e quindi i movimenti del corpo, i singulti, i battiti di qualsiasi tipo risultano parte integrante della musica messa in scena. L’idea che sta alla base di MEV è quella di creare una sintesi dai contorni fortemente sociali e politici fra esecutori, spettatori e ambiente circostante, che possa rappresentare “un luogo di ritrovo, un gruppo per la performance, un punto di sosta e una scuola in cui vecchi e giovani imparavano l’uno dall’altro e suonavano insieme sullo stesso palco”. Il suono è sono solo uno dei mezzi attraverso cui tutto ciò si realizza.

I minimalisti

A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, negli Stati Uniti muoverà i primi passi quella che lo stesso Michael Nyman definirà nel 1968 “musica minimalista”. I quattro compositori che maggiormente hanno contribuito a delinearne i contorni stilistici ed espressivi (Terry Riley, Philip Glass, La Monte Young e Steve Reich), con modi, metodi e risultati differenti, fin da subito si focalizzano sull’impiego di attrezzature elettroniche ed elettroacustiche. Queste diverranno indispensabili per gli infiniti sviluppi delle brevi porzioni ritmico-melodiche poste dai quattro alla base delle loro composizioni.

Qui è interessante concentrarsi su due di questi artisti in particolare.

Steve Reich inizia a sviluppare la sua “musica come processo graduale” nel 1965, servendosi delle potenzialità insite nei registratori a bobine, che già allora erano disponibili anche in dimensioni ridotte, facilitandone così l’uso in ambito casalingo e in situazioni performative varie ed eventuali. “It’s Gonna Rain” (1965) e “Come Out” (1966) sono due dei brani più rappresentativi che Reich comporrà utilizzando frammenti di registrazioni vocali fissate su nastro magnetico. Per il primo dei due Reich registra la voce di un predicatore di colore in una piazza di San Francisco, poi in studio seleziona una breve frase le cui qualità musicali lo interessano particolarmente. Crea così due loop identici del frammento in questione, che fa girare su due registratori in teoria altrettanto identici. Dopo un po’, però, nota che a causa delle minime differenze meccaniche fra le due macchine la frase veniva udita leggermente fuori sincrono. La scoperta lo incuriosisce al punto che si mette a controllare direttamente questa discrepanza ritardando una bobina con il pollice, creando così uno sfasamento minimo tale da non influenzare l’altezza del suono inciso sul nastro. Questo fenomeno chiamato phasing (spostamento di fase) sarà alla base anche di “Come Out, il secondo fra i “phase pieces” per nastro magnetico composti da Reich e sarà sviluppato praticamente lungo tutta la sua carriera, venendo applicato a pezzi per strumenti sia acustici (“Piano Phase”, del 1967; “Drumming”, del 1970-71; “Music For Pieces Of Wood”, del 1973…), sia elettrici (“Four Organs e Phase Patterns” del 1970; “Electric Counterpoint”, del 1987; etc.), nei quali la ripetizione insistita è considerata come mezzo unico per generare movimento in maniera graduale e percepibile sulla lunga distanza. Ma i lavori elettroacustici di Steve Reich non hanno sempre e solo sfruttato le potenzialità del phasing fornite dal nastro magnetico. Un caso emblematico – nonché unico – nella sua produzione è fornito da “Pendulum Music” (1968) per microfoni, amplificatori, altoparlanti e performers. Ecco le indicazioni fornite dal compositore per l’esecuzione del brano:

2, 3, 4 o più microfoni sono sospesi al soffitto con i loro cavi in modo tale che siano tutti alla stessa altezza e liberi di oscillare con moto pendolare. Ogni microfono è collegato ad un amplificatore e ad un altoparlante. Ogni microfono è sospeso qualche pollice al di sopra di un altoparlante. L’esecuzione inizia con gli esecutori che prendono il loro microfono, lo tirano indietro come un pendolo e poi, tutti insieme, lo lasciano oscillare. Gli esecutori allora alzano con cura il volume degli amplificatori fino al punto di innesco di ogni microfono quando questo si trova esattamente sopra al suo altoparlante. Così si odono una serie di impulsi di innesco, che potranno essere all’unisono o no, a seconda dei rapporti di fase fra i singoli microfoni-pendoli, che cambiano gradualmente. Gli esecutori allora si siedono ad ascoltare il processo insieme al pubblico. Il pezzo termina qualche tempo dopo che tutti i microfoni hanno smesso di oscillare, e quindi emettono un suono continuo, con gli esecutori che staccano i cavi dagli amplificatori.

Anche Terry Riley nei suoi primissimi lavori si cimenterà con l’utilizzo di nastri magnetici, talvolta accostati a strumenti acustici. “Mescalin Mix” e “Bird Of Paradise” sono due pionieristiche composizioni di Riley composte fra il 1960 e 1962 nell’ambito dell’allora nascente San Francisco Tape Music Center (fondato nel 1962 da Morton Subotnick, Ramon Sender e Pauline Oliveros) e ispirate dal lavoro di Richard Maxfield, che consistono in nebulosi tape-collage che si rincorrono sovrapponendosi senza soluzione di continuità. In “Gift Music” (1963) Riley utilizza frammenti della registrazione di un concerto parigino del trombettista jazz Chet Baker, sovrapponendoli e creando dei loop, modificati tramite il Time Lag Accumulator (un sistema con due registratori a nastro Revox per il delay e il feedback), che sfasano gradualmente. Anche Riley, in maniera analoga a Reich, dopo questi primi esperimenti rivolti alle potenzialità del nastro, adopererà una strumentazione sia acustica (ricordiamo “In C”, del 1964, forse l’opera in assoluto più rappresentativa della scuola minimalista americana) sia elettronica. “A Rainbow In A Curved Air” e “Poppy Nogood And The Phantom Band”, realizzati fra 1968 e il 1969, rappresentano una tappa di passaggio epocale nella musica sperimentale ed elettronica, perché ufficializzano la prima grande connessione, malvista da una nutrita schiera di accademici, con gli ambienti più progressisti della popular music.

Per la realizzazione di “A Rainbow In A Curved Air” in particolare, Riley si serve di organo elettrico, clavicembalo, rocksichord (una tastiera elettronica commercializzata nel 1967 che produceva delle sonorità molto vicine al clavicembalo), dumbec, tamburino, sassofono soprano e  di alcuni tape-loops. Il risultato sonoro è una sorta di raga (complice l’influenza del suo maestro di allora Pandit Pran Nath) dal sapore psichedelico, basato su una pulsazione costante che avanza per circa 18’:47” – durata da intendere funzionale anche alla capienza della facciata di un disco microsolco a 33 rpm – in un continuo sovrapporsi di brevi melodie pentatoniche che si rincorrono completandosi a vicenda.

L’influenza che questo brano avrà sulle generazioni di musicisti e compositori che in seguito si cimenteranno nella produzione di brani e opere elettroniche caratterizzate da moduli sonori ripetuti è enorme. Lo sviluppo, fra gli anni Settanta e Ottanta, di apparecchiature elettroniche sempre più sofisticate, quelle che segnano il passaggio dall’analogico al digitale, crea poi i presupposti per la nascita di tutta una serie di esperienze musicali ed estetiche (ambient, electro-pop, industrial, computer music…), che si susseguono avvicendandosi in tempi spesso brevissimi, arrivando fino ai giorni nostri.

Terry Riley