CHES SMITH’S WE ALL BREAK, Path Of Seven Colors

“La mia attrazione per il Voudou haitiano è stata forte e istantanea. Nel 2000 sono stato chiamato per accompagnare delle lezioni di danza haitiana; restai affascinato, perché molte delle cose importanti nella mia musica – poliritmi, politonalità, improvvisazione, tensione e rilascio, paletta timbrica ampia, energia incanalata e soprattutto, vitale, un senso di sorpresa, erano presenti, con una nuova veste in questa forma tradizionale”. Così il batterista extra-ordinario Ches Smith (a metà luglio dalle nostre parti con sua maestà Marc Ribot nel trio delle meraviglie Ceramic Dog, completato da Shahzad Ismaily) nell’introdurre questo scintillante secondo capitolo del progetto We All Break, in questo lavoro in ottetto (Nick Dunston al contrabbasso e Sirene Dantor Rene alla voce). La sempre attenta Pyroclastic Records della pianista Kris Davis pubblica un lussuoso doppio (l’altro disco è l’omonimo del 2015) con inclusi splendidi libretti che spiegano per filo e per segno la genesi di questa musica e le sue caratteristiche. Se volete approfondire ulteriormente (e ne vale senz’altro la pena), andate su questo link per vedere un film di una cinquantina di minuti di Mimi Chakarova sul making of del disco.

Definito un incontro tra le vertigini ritmiche della musica afro-caraibica e la musica improvvisata, il sentiero dei sette colori mantiene l’arcobaleno che promette, grazie ad un cast stellare (è della partita, tra gli altri, il sempre affilato e puntuale Matt Mitchell, al piano). Ognuna delle otto composizioni è nitida, grondante vitalismo ed euforia ritmica, acrobatica e non ha nemmeno un filo di adipe addosso: prendiamo ad esempio “Women Of Iron”, con l’alto sax di Miguel Zénon in grande evidenza a fiorire canti obliqui su una pulsazione mobile, imprendibile eppure inesorabile. Groove, groove, groove, in una fertile fusione tra il linguaggio arcaico e pagano dei ritmi della danza e composizioni, scomposizioni e ricomposizioni liberissime e ipso tempore rigorose che trasportano chi ascolta in un gorgo di pulsazioni da cui non ci sarà scampo. Una poderosa sezione ritmica, costituita dal leader affiancato da tre tanbou (lo strumento nazionale dell’isola del Caribe, il tipico tamburo a botte) suonati da Daniel Brevil, Fanfan Jean-Guy Rene e Markus Schwartz (tutti e tre anche alle voci), fornisce il motore inarrestabile per questa ora abbondante di bagno balsamico e salvifico nelle acque del ritmo. Tuffatevi in questi otto enigmatici ed accoglienti rituali dove sangue avant pompa dentro un corpo antico, dando nuova linfa a discorsi antichi, pre-alfabetici: uscirete nuovi e più vivi dalla meraviglia corale di “Lord Of Healing”, vi perderete nei labirinti primitivi intricati e perfetti di “Raw Urbane” o nell’ossessione sbilenca ed esatta di “Here’s The Light”. Musica intricata ed articolata, ma non complicata, e che ha infatti il grande dono di suonare immediata e di arrivare fluida e naturale all’orecchio e di invitare addirittura alla danza. Seguite le indicazioni, incamminatevi anche voi sul sentiero dei sette colori, accordate il vostro muscolo al battito del cuore di questo disco magnifico.