CHELSEA WOLFE, Hiss Spun

What I want is to open up. I want to know what’s inside me. I want everybody to open up. I’m like an imbecile with a can opener in his hand, wondering where to begin – to open up the earth. I know that underneath the mess everything is marvellous. I’m sure of it.

Questa citazione tratta da “Sexus” di Henry Miller accompagna l’uscita di Hiss Spun, il sesto album in studio di Chelsea Wolfe. Paura, sacrificio, sofferenza sono da sempre tematiche presenti nelle sue produzioni. Affrontate con visceralità e introspezione, hanno dato vita a un’apologia del dolore che sin da The Grime And The Glow si è sempre concentrata sui suoi patimenti e sulla sensazione di essere imprigionati dentro se stessi.
Con Hiss Spun le cose cambiano: è la stessa Chelsea ad aver dichiarato nella press release che stavolta si parla di una sorta di vaso di Pandora, di un flusso di coscienza che parte direttamente dal suo cuore per aprirsi al mondo, per razionalizzare la sua tempesta interiore e farla uscire, esplodere.

Le copertine dei suoi album l’hanno sempre vista protagonista in prima persona e hanno sempre dato una chiave di lettura simbolica di ciò che avremmo ascoltato: non è quindi un caso che qui l’artwork la raffiguri in un angolo, pronta ad attaccare, come un animale mitologico, forse un’arpia. Un essere che nasce proprio dalla tempesta e che sembra volerci far capire che la timida ragazzina che nascondeva il volto dietro un velo nero durante i suoi live si è ormai trasformata in una donna forte e combattiva.

Affrontare i propri demoni significa, il più delle volte, tornare a casa. Per questo motivo la Wolfe abbandona le luci losangeline, decidendo di scrivere i pezzi nel deserto che circonda la sua Sacramento. Valli isolate e silenziose si stagliano per km, fino a incontrare la durezza delle cime rocciose. Un palcoscenico arido sul quale sceglie di salire con la storica amica Jess Gowrie alla batteria, Ben Chisholm con il suo distintivo basso distorto e, come ospite in alcuni brani, il leggendario chitarrista Troy Van Leeuwen (Queens Of The Stone Age, A Perfect Circle). L’orchestra è diretta da Kurt Ballou, in grado di dare al disco un suono ancora più spettrale e magnetico.

Con Abyss la Wolfe si spingeva verso sonorità più heavy, sostenute da pulsioni doom-metal, ritmiche claustrofobiche e cascate di industrial, il tutto finemente intrecciato con intermezzi electro-ambient. “Hiss Spun” prosegue il discorso, ma qui la componente “heavy” sembra aver preso ancora più il sopravvento.

L’apertura “Spun”, rende perfettamente chiare le intenzioni della songwriter:  riff implacabili, stratificati, spinti da tamburi cavernosi e spaventosi à la Neurosis.
“16 Psyche”  è minacciosa e oscura, sorretta da una linea di basso che sembra voler assorbire qualsiasi riflesso luminoso del brano, sensazione che pervade anche il testo che recita I’d save you but I can’t, portandoci a “Vex”, uno degli episodi migliori: toni frantumati, chitarre taglienti e ritmiche compatte creano una sorta di premessa infernale alla deflagrazione del growl spietato e feroce di Aaron Turner. Ma di fronte a tutta questa brutalità, la Wolfe ha l’eleganza e la destrezza vocale per attaversare la canzone con straordinaria grazia.
“Twin Fawn” riprende questo tema. È una traccia che sembra essere sfiorata da una presenza, da una figura anonima che si muove delicatamente tra le pieghe dell’anima della cantautrice. Inizia con la voce di lei soffocata in un sussurro forzato, le sue dita accarezzano piano le corde della chitarra acustica mentre la Gowrie lavora leggermente sui tom. Il pezzo si apre poi come una crepa nella realtà: You cut me open, you lived inside, You kill the wonder, nowhere to hide e la musica esplode come un poltergeist, portandoci nuovamente all’inferno per poi cullarci delicatamente e tagliarci ancora e ancora, come una marea rovinosa che si ritira e torna a sbattere contro gli scogli più e più volte.
“Two Spirit” è un altro brano acustico che, animato da una voce sensuale e sognante, sembra più vicino a un antico canto popolare. Il disco, quindi, non è caratterizzato solo dalla violenza del suono e dal turbamento che ne deriva, ci sono scorci di speranza tra le tenebre anche se, proprio questi momenti, sono tra i più emotivamente devastanti.
“The Culling” è forse la chiave interpretativa dell’intero album, con il suo parlare di segreti familiari, del culto dell’anonimato e di come le ferite non possano essere lasciate guarire da sole. Termina con le parole “flux, hiss, welt, groan”, presenti non solo all’interno del titolo ma in tutti i testi delle canzoni racchiusi in questo disco, tanto che la stessa Wolfe ha detto: Flux represents movement and flow, hiss is the positive life force, welt is the brutality of life, and groan represents sensuality and death.
“Scrape” è estremamente inquietante nel suo parlare di ninfe contaminate, di ratti che grattano le pareti e di abbandono, creando una cacofonia di immagini sonore e visive intensa quanto l’album. La sua tonalità caustica e solenne, con la batteria dal ritmo tribale e pesante, segna non solo la fine dell’album, ma, più intricatamente, è una rappresentazione del viaggio interiore della Wolfe.

Se l’incredibile voce di Chelsea è la vera protagonista del disco, la  collaborazione a lungo termine con Ben Chisholm merita un riconoscimento. Non solo il suo basso ha la capacità di rendere molto minaccioso ogni brano: la manipolazione che compie sul suono e la creazione di campionamenti forniscono sfondi torvi che aiutano la Wolfe a tessere la sua magia. Senza l’intervento di Ben le atmosfere non sarebbero così efficacemente opprimenti. È infatti a lui che si deve, ad esempio, la registrazione degli ululati di un coyote in una notte desertica che vengono poi utilizzati per rendere “The Culling” ancora più cupa.

Hiss Spun è di sicuro diverso dai suoi predecessori: in un certo senso, è considerabile una svolta nel percorso della cantautrice che, mai come ora, ha deciso di puntare su sonorità più pesanti per dar vita ai suoi turbamenti. Volendo trovare qualcosa di negativo, possiamo forse dire che ha poca identità: se da un lato è chiara la direzione imboccata, d’altra parte il sound risulta ancora confusionario, un mix delle sperimentazioni che la Wolfe ha intrapreso nel corso della sua carriera e dal quale sì, sta ormai emergendo la componente più “rumorosa”, ma che non è ancora ben definita come era, invece, il suono degli esordi. Non ci resta che aspettare la prossima prova.