CHELSEA WOLFE, Birth Of Violence

Birth Of Violence sembrerebbe la risposta di Chelsea Wolfe alla brutalità del presente. La songwriter californiana ha segnato gli anni Dieci passando dall’esordio The Grime And The Glow ad almeno tre differenti capolavori di fila: Apokalypsis, Pain Is Beauty e Abyss, spostandosi dal folk al rock, dal synthpop al doom metal, senza mai perdere in spessore compositivo né in personalità. A legare il discorso in un unico continuum, una forma di “darkness” a suo modo brillantissima.

Il precedente lavoro, Hiss Spun del 2017, prodotto d’altronde da Kurt Ballou dei Converge, poteva dirsi il capitolo più heavy del lotto. Adesso, al settimo disco, il quinto per Sargent House, è inserita la retromarcia verso i giorni degli esordi o della raccolta unplugged Unknown Rooms: A Collection Of Acoustic Songs, risalente al 2012. Le sonorità, infatti, tornano a farsi in prevalenza acustiche, per un’apocalisse interiore che esalta le radici: quelle del blues (del diavolo), quelle americane, quelle esoteriche e gotiche. Tra i brani, “American Darkness” è dunque fortemente programmatico, accompagnato peraltro da un video in bianco e nero di Karlos Rene Ayala che omaggia sia il film “Magnolia” di Paul Thomas Anderson sia le carte dei tarocchi.

In scaletta ci sono nel complesso undici ballate vieppiù intimiste (e una breve traccia di field-recordings temporalesche a conclusione, intitolata ovviamente “The Storm”), ma rispetto agli albori la scrittura si avvale dell’esperienza guadagnata sul campo, della complessità degli arrangiamenti e dell’attenzione ai dettagli. Ecco che “The Mother Road”, primo singolo estratto, è tanto un’ode alla Route 66 quanto un inno alla Natura, al paganesimo, che si fa intensa anche grazie all’uso epico delle percussioni e degli archi, sino alla catartica apertura della melodia/preghiera finale. Alla batteria e alla viola, gli ospiti sono Jess Gowrie ed Ezra Buchla. Il riferimento alla strada statunitense –  archetipo per tutti i viaggiatori della storia – si spiega col fatto che la Wolfe, reduce con un senso di smarrimento identitario dalle infinite sorprese della vita on the road, ha deciso di tornare a scrivere e registrare spontaneamente nella sua casa, nel Nord della California, con la sua voce e la sua chitarra in primo piano, con l’unico aiuto del fido Ben Chisholm. Indicativo, in tal senso, il verso di apertura della tradizionale “Highway”: Another city, another day / Left all of me on the stage. Si pensa a certe atmosfere degli Earth, alla grazia spettrale di Marissa Nadler, più alla lontana alla fantasmatica PJ Harvey di White Chalk. Wolfe rimarca però il suo spirito battagliero nell’esaltare un’energia femminile – la stessa della madre Terra, per lei sempre attenta alle tematiche ecologiste – da opporre al dominio distruttivo del patriarcato. Tornando alla terra delle stelle e strisce, accenna poi persino alla maledizione delle sparatorie scolastiche: avviene in “Little Grave”.

I pezzi di “Birth Of Violence” potrebbero diventare degli standard dell’orrore, se non fosse che la loro titolare resta ben lontana dalle soluzioni facilmente accessibili. La propensione per la sperimentazione elettrica-elettronica rifà capolino negli effetti di “Erde” o “Preface To A Dream Play”. Fa eccezione “Deranged For Rock & Roll”, una bomba pop per una sorta di Lana del Rey del Sottosopra: irresistibile. Nel ritornello di “Be All Things”, un altro degli episodi più toccanti e maestosi, canta: I cannot stop / I want to be all things / I’ve got to let go / I want to be all things. Vuole essere tutte le cose, guerriera e regina, rocker delle tenebre e storyteller della luna. Col senno di poi, è sempre stato così in questo suo primo memorabile decennio di attività artistica.