CARPE NOCTEM, Vitrun

È un dato di fatto che negli ultimi anni la scena black metal islandese si sia fatta particolarmente notare per una varietà di band capaci sia di proporre vecchi stilemi in nuove versioni (Sinmara, Rebirth Of Nefast), sia di riadattare suggestioni più recenti miscelandole con ingredienti rumorosi e dissonanti (Misþyrming, Naðra). Inoltre, è uscito un bel libro fotografico che, come quello di Peter Beste sulla Norvegia, ha ampliato il pubblico di questa scena, contribuendo a crearle intorno a loro un’aura artistica. Detto questo, stiamo comunque parlando di una manciata di nomi underground, che non hanno niente a che vedere con quelli su Nuclear Blast o Century Media, e non c’è affatto della sopravvalutazione, anzi: complici forse anche le nuove generazioni influenzate da più generi diversi di musica estrema, le band che escono da questa fucina in mezzo all’oceano sono tutte particolarmente taglienti, abrasive, genuine e con la loro personalità.

I Carpe Noctem, i cui componenti sono sparsi in alcuni dei gruppi già citati (è abbastanza normale da quelle parti), tagliano il traguardo del secondo album, sempre pubblicato da code666. Vitrun è composto da lunghe suite tutte sopra gli otto minuti, sulle quali hanno di certo pesato i Deathspell Omega (questo può far storcere il naso, perché abbiamo già sentito dozzine di gruppi ispirati da loro), una formazione da annoverare ormai tra quelle classiche, assieme a quelle gloriose degli anni Novanta. I Carpe Noctem paiono voler scartare i momenti più frenetici e quasi matematici degli ultimi dischi dei francesi per guardare soprattutto a quello che è da considerarsi il loro album più estatico, vale a dire Kénôse, nonostante diversi intro e outro con registrazioni d’ambiente collochino Vitrun in una dimensione terrena, nelle viscere delle grotte, il che lo distanzia decisamente dalle atmosfere apocalittico-spirituali di Kénôse.

I lunghi tormenti di Vitrun sono capaci di scatenare le più veloci fiamme dell’inferno a ritmo dei blast-beat serrati e all’ombra della voce gutturale e cavernosa di Alexander; spesso le chitarre, quando non sono impegnate negli ormai consolidati arpeggi semi-acustici cacofonici (“Upplausn”), si riversano in un gorgo distorto e rumoroso. Sono tanti i passaggi da queste ondate violente a momenti più riflessivi, sempre connotati da lunghi fraseggi di chitarra, spesso singole note isolate che vengono tese e protratte a lungo, come se si perdessero nei flutti del mare: “Og Hofið Fylltist Af Reyk” risponde a queste ultime caratteristiche ed è uno dei punti più alti dell’album. “Úr Beinum Og Brjóski” è l’unico breve respiro acustico del tutto, sempre dissonante a ogni nota e poco rassicurante nonostante la mancanza di overdrive o distorsioni; un interludio poco prima del gran finale connotato da riff ipnotici e ripetitivi. Il sipario cala con una continua sensazione di vertigine e di disorientamento, perennemente accentuata dai ritmi scostanti di una batteria che pulsa in maniera irregolare come a indicare i colpi a terra di una caduta senza fine.