CAPTAIN MANTELL, Dirty White King

Dirty White King, sesto album dei Captain Mantell, è un disco che risucchia l’ascoltatore all’interno di una trama coinvolgente e lo stordisce con continui giochi di luci ed ombre, con un’atmosfera cupa e a tratti opprimente che viene spesso squarciata da melodie atte a rendere il tutto ancora più intrigante e a fuoco. Insomma, inutile girarci intorno, questa storia di regicidio e caccia all’uomo, azione e conseguenze, è una delle sorprese di questa prima tranche di anno, un titolo destinato ad accamparsi nel lettore e a stazionarci a lungo proprio per il suo equilibrio tra stili e umori, oltre che per la sua fluidità nel raccontare senza indugiare troppo per non perdere di incisività. È, per assurdo, un disco con un forte retrogusto Nineties, per il suo inglobare in piena libertà linguaggi differenti senza schierarsi mai apertamente da una parte o dall’altra, né rifiutare il contatto con quel sentire più leggero (pop nell’accezione beatlesiana del termine) che oggi purtroppo ha perso la sua natura di contaminazione tra mondi per apparire sempre più come un semplice strumento acchiappa-favori. Al contempo, è anche un disco incredibilmente moderno per come tratta i suoni e per il song writing, con la capacità di dosare parti dal forte taglio cinematografico e aperture come nella seconda parte di “Livor Mortis”, senza per questo perdere il filo o lasciarsi andare all’autocompiacimento. “Let It Down”, in particolare, è il perfetto esempio dell’incredibile capacità di essere al contempo estremi e accattivanti, di picchiare e accarezzare in una girandola di riff incisivi e cori ariosi, stacchi serrati e momenti di calma apparente, con un tiro che non può non rimandare alla migliore Seattle. Merito dei tre musicisti e della loro preparazione anche dietro la console, ma soprattutto del loro tenere sempre in vista la fruizione finale, la capacità di comunicare e non arroccarsi in un dialogo per iniziati.

Difficile tracciare delle coordinate senza rischiare di essere fuorvianti, del resto, la stessa formazione chitarra, sassofono e batteria rende particolare l’appeal di questa band che di sicuro ha sentito nominare John Zorn e i Mr.Bungle e da loro è partita per inventarsi una propria ricetta, se non unica di certo ben assemblata e dal gusto personale. Non manca l’apporto di alcuni amici chiamati ad arricchire l’armamentario in dotazione e accentare alcuni passaggi della trama, così come non si può non menzionare l’artwork a firma Michele Carnielli (Seals Of Blackening), che mette la classica ciliegina sulla torta e completa il menù con un art work oltre modo efficace. Davvero difficile muovere un appunto che non sia collegato alla predisposizione dell’ascoltatore o alla sua sensibilità personale, di sicuro nel nostro solito e utopico mondo ideale Dirty White King sarebbe finito nelle top ten indipendenti e in heavy rotation alla radio, ma questo ormai lo sapete…

Tracklist

01. Dirty White King
02. The Invisible Wall
03. Stuck In The Middle Ages
04. Worst Case Scenario/Alone
05. Blood Freezing
06. Livor Mortis
07. Let It Down
08. Inner Forest
09. Days Of Doom
10. In The Dog Graveyard
11. Even Dead
12. And Nothing More To Come… Maybe