CANNIBAL CORPSE, Violence Unimagined

Violence Unimagined è il quindicesimo album a firma Cannibal Corpse, l’undicesimo con George “Corpsegrinder” Fisher alla voce, il primo con Erik Rutan alla chitarra (e alla produzione) al posto di Pat O’Brien, l’ennesimo tassello di una carriera che tra molti alti e qualche basso va avanti dal lontanissimo 1988. Cosa c’è da scrivere a questo punto su una band che conoscono anche i sassi e che ha segnato con il suo nome i destini della scena mondiale death-metal? In primis, bisogna sottolineare come il “nuovo” chitarrista sia in realtà una sorta di cugino e da sempre membro della famiglia: per dire, lui e Alex Webster avevano già suonato insieme negli Alas, per questo si è adattato alla perfezione nel tessuto della band, evitando accuratamente di stravolgerne i tratti o imporre il proprio stile (che comunque viene fuori nei solo), così da risultare l’uomo giusto al momento giusto. Aggiungerei che questo è, con buona approssimazione, uno dei migliori dell’epoca Fisher e non mostra il fianco a tentennamenti di sorta, perché se è vero che in fondo i Cannibal Corpse sono da molti considerati i Motörhead della scena death, in realtà -proprio come per la band di Lemmy – dire che è tutto uguale e sullo stesso livello è a dir poco un’approssimazione ingiusta, perché la formazione ha saputo dare ad ogni disco una sua caratteristica peculiare (seppur minima), spostando l’equilibrio dei vari elementi, un aspetto che ha contribuito a rendere ogni lavoro figlio di un determinato periodo e di un determinato umore. Punto fondamentale, secondo chi scrive, è poi il grado di divertimento che l’ascoltatore ottiene nel farsi trascinare sull’ottovolante, aspetto che nel caso di Violence Unimagined appare fuor di discussione visto che i brani ci sono e non lasciano con l’amaro in bocca, al contrario sanno sviluppare una trama ricca e mai monotona, spesso dotata del classico guizzo che ravviva l’attenzione e tiene attaccati alle casse. Certo siamo di fronte ad un nome storico che non deve dimostrare più nulla e appare evidente come ormai la band giochi sul proprio campo pressoché allo stato dell’arte, fatto salvi gli anni passati e qualche acciacco. Per finire, va menzionata una buona spruzzata di thrash che dona le giuste dinamiche ai riff, qualche rallentamento, il necessario groove e come ciliegina l’immaginario splatter che da sempre fa da sfondo alle uscite della band, ed ecco servita la torta della nonna che non delude le aspettative proprio per la sua fedeltà alla ricetta originale qui riproposta in modo fresco e assolutamente godibile. Se poi siete di quelli che restano fermi ai primi dischi e che magari non hanno mai accettato il cambio di frontman, be’, onestamente non è un problema dei Cannibal Corpse né tantomeno del sottoscritto. Per tutti gli altri, buon giro di giostra.