BUILT TO SPILL, When The Wind Forgets Your Name

Un disco nuovo dei Built To Spill fa sempre notizia, anche a trent’anni dall’esordio della band di Boise, specie se l’indie-rock gode di ottima salute, come dimostra la valanga di imitatori e amanti del genere spuntati come funghi a partire dal 2010 a oggi. Dai vari Parquet Courts, Car Seat Headrest, Cloud Nothing fino alle più recenti Wet Leg, Phoebe Bridgers, Beabadoobee, c’è parecchia gente in debito con Doug Martsch, la cui opera è stata sterminata e, a tratti, imprevedibile, ma fondamentale nell’evoluzione del rock alternativo statunitense durante gli anni Novanta. Insomma, nel clima musicale degli ultimi tempi, When The Wind Forgets Your Name ci sta come una ciliegina sulla torta, anche perché la band non si faceva vedere dai tempi di Untethered Moon del 2015, fatta eccezione per l’omaggio del 2020 allo scomparso Daniel Johnston (Built To Spill Plays The Songs Of Daniel Johnston).

Nel 2019 Martsch, ormai intenzionato a ruotare formazione per ogni disco, aveva registrato delle tracce ritmiche con João Casaes e Lê Almeida degli Oruã, che lo avevano accompagnato nel precedente tour sudamericano. Con il lockdown, Martsch ha approfittato per completare le canzoni finite poi qui: una dinamica di cui, in questi due anni, abbiamo sentito più volte e che non avrebbe certo escluso uno che ha fatto della contemplazione del proprio ombelico una cifra stilistica. I Built To Spill appaiono concentrati a ricamare un patchwork autunnale di folk-rock, ora più contratto e “rock”, ora più dilatato e psichedelico: le melodie e le trame, come sempre, si evolvono senza fine, accompagnate dalla voce grigia di Martsch, ma il tiro è decisamente sotto tono, se non un capello imbolsito. Non mancano momenti che fanno alzare la testa (“Never Alright”, “Elements”), ma nel complesso una prova debole. Classica uscita per completisti e fanatici, altrimenti tornate al via passando per Perfect From Now On.