BOTTOMLESS, Bottomless

I Bottomless nascono da un’idea di due musicisti che hanno già suonato insieme negli Assumption, negli Undead Creep, negli Haemophagus e nei Morbo, cui si unisce al basso Sara Bianchin (Messa, Restos Humanos) per dar vita a un power trio devoto al verbo del doom più puro e ortodosso, quindi a partire dai classici numi tutelari del genere Black Sabbath, St. Vitus, Trouble, Pentagram, The Obsessed. Questa vocazione è tanto marcata e voluta da essere riportata a chiare lettere anche nella presentazione che accompagna il disco e non si può evitarla se si vuole dare un’immagine corretta di ciò che si ascolterà su quest’omonimo debutto. Un gioco a carte scoperte che non garantisce, del resto, il buon risultato e la rispondenza dello stesso a quanto promesso, fattore che viene svelato solo una volta avviato il disco e lasciato che i brani della band compiano la magia di riportarci indietro nel tempo, merito di una scrittura fluida e coinvolgente, per nulla rigida o timorosa, quanto capace di portare in dote canzoni doom con la giusta botta, così da non lasciare con l’amaro in bocca gli amanti del genere. Quello che non era stato anticipato era la sosta a fine anni Ottanta/inizi Novanta in quel di Seattle, dove due band come Soundgarden (Ultramega OK, Louder Than Love) e Alice In Chains (Facelift, Dirt) si facevano il bagno in queste sonorità per darne una versione aggiornata che si affaccia in mente mentre si ascoltano i Bottomless, come accade ad esempio con l’opener “Monastery”, sorta di clash tra i primi vagiti di questi due nomi. Per il resto, si viene trasportati in un mondo di rimandi all’immaginario doom della miglior specie, tanto poco originale sin dalle intenzioni quanto appagante e ricco di atmosfera, con vocals ispirate e sostenute da un riffing e una sezione ritmica cui si possono muovere ben poche critiche, soprattutto al servizio di composizioni mai uguali a sé stesse e dotate di dettagli che ne facilitano la fruizione. Insomma, questo è il classico album di genere che non inventa nulla di nuovo e che non si stacca dal percorso già segnato dai pionieri, cui piuttosto riconosce il giusto ruolo e dei quali celebra la gloria con una devozione quasi maniacale, eppure riesce al contempo a donare quell’energia che sa tanto di scintilla per ravvivare il fuoco attorno al quale radunare glia adepti. La Spikerot ha creduto nel progetto e ha dato una casa ai tre per un debutto che ci sentiamo di segnalare tra le uscite da ascoltare soprattutto se il menù proposto rientra nella vostra dieta. Non era scontato accadesse, eppure ancora una volta quando la passione è genuina e si hanno le giuste motivazioni il risultato è quello sperato.