BOBBY PREVITE, Rhapsody

Parterre de rois per questo disco di Bobby Previte (trap drum, percussioni, autoharp, chitarra, armonica): sono con lui in questa rapsodia John Medeski (piano), Zeena Parkins (arpa), Fabian Rucker (sax alto), Jen Shyu (voce, piano ed Er Hu, un violino cinese dal timbro fantastico) e Nels Cline (chitarre slide, acustica e a dodici corde).

Il compositore e batterista, che si cimenta qui per la prima volta anche nella stesura dei testi, con quest’album affronta il discorso del transito, della migrazione, ispirandosi anche alla sua storia familiare (la madre è nata in Sicilia). Secondo capitolo della trilogia “Terminal”, Rhapsody fa seguito a Mass, dove facevano bella mostra di sé cori, un organo e un trio heavy metal. Qua invece è un sestetto completamente acustico a eseguire le composizioni del leader, tra ruggine prog (“Casting Off”, che pare uscita di peso da un qualche vecchio disco inglese degli anni Settanta, con un surplus di orchestrazione che affascina e respinge al tempo stesso) e composizione nitida e calibratissima (gli undici minuti “All The World”, che si apre su un ostinato dispari di pianoforte e in seguito si evolve in modulazioni e sospensioni, in un gioco di accumulazione che cattura per poi virare completamente rotta, perdersi in una bellissima deriva e sbalordire, quasi una sinfonia in miniatura, tra Henry Cow e chissà che altro).

Se il disco di Liebman-Nakatani-Rudolph, sempre uscito in questo periodo per Rare Noise, suona un po’ come un’occasione persa, questo invece è un centro pienissimo, e il tema del viaggio è esplorato con grande ricchezza di soluzioni: “The Lost” è scura, circospetta, drammatica, e sembra davvero di essere persi in mare aperto; “I’m drifting in the Dark” canta Jen Shyu, accompagnata dall’arpa gentile di Zeena Parkins in “When I Land”, una vera e propria canzone, non così lontana da certe pagine di Genesis o King Crimson; “The Timekeeper” nuovamente si muove su territori canterburiani (Hatfield & The North?), rivisitati con poesia e originalità grazie all’assetto peculiare dei sei e alla loro maestria, e sfuma in “Coming About”, dove il piano e le chitarre dialogano di mondi delicati, di approdi possibili. “All Hands” sono nove minuti abbondanti, tra triangolazioni arpa-chitarra-percussioni e un sax lieve e verticale: ancora una costruzione squisitamente prog, ma senza un’unghia di polvere addosso, anzi, asciutta, misurata, perfettamente a fuoco, con un Cline magistrale alla slide e un impianto complessivo che regala belle vertigini. Lirica e sospesa “Last Stand/Final Approach”, vicina al risaputo senza mai sfiorarlo manco con un dito, e anzi capace di sorprendere con un bellissimo intervento di Previte all’armonica, che porta al cielo un tema poi sollevato oltre le nuvole da batteria e sassofono (Fabian  Rucker, una graditissima sorpresa per quanto mi riguarda, con una voce che suona subito classica). “I Arrive”, la nona e ultima traccia, riprende il primo brano, dando un senso di circolarità a un viaggio che rapisce e al quale basta tornare premendo di nuovo il tasto play.

Questo lavoro è stato commissionato a Previte dalla Greenfield Foundation, che lo ha insignito di un prestigioso premio nel 2015 e poi gli ha dato uno spazio all’Hermitage Artist Retreat, a 20 passi dalla costa del Golfo del Messico, per comporlo: si sentono i panorami sconfinati, in queste nove tracce, e si sente l’ispirazione che vaga, libera e solida. Sarei curioso di vedere un documentario sui giorni in cui il batterista ha composto Rhapsody; come di solito poi nel jazz, in soli due giorni, il tutto è stato registrato a Brooklyn, ma del resto qua stiamo parlando di extraterrestri. Con un cuore umano, troppo umano però, che irrora di sangue prezioso ogni vena di un disco semplicemente bellissimo.

Tracklist

01. Casting Off
02. All The World
03. The Lost
04. When I Land
05. The Timekeeper
06. Coming About
07. All Hands
08. Last Stand / Final Approach
09. I Arrive