BLACK CAPRICORN, Cult Of Black Friars

Black Capricorn

Vi hanno stregato per un po’ di anni con ballate di doom lisergico, ma ad Ognissanti i Black Capricorn sono riemersi dagli antri e dalle selve della Sardegna più arcana con Cult Of Black Friars, un nuovo carico di magie dal nome lugubre e portatore di presagi funesti. Infatti stavolta ad ammaliarvi è soprattutto doom duro e (quasi) puro.

I Black Capricorn, di Cagliari, sono al terzo album e dopo un periodo in cui sono stati un quintetto (in occasione della loro seconda fatica, Born Under The Capricorn, uscita nel 2013), sono tornati agli inizi, cioè con lo stregone barbuto Fabrizio Monni – Kjxu a chitarra e voce, più le sorelle, autentiche maliarde, Virginia e Rachela Piras, rispettivamente al basso e alla batteria. Cult Of Black Friars è il viaggio occulto e tenebroso, lungo quasi un’ora, sviluppato da questi musicisti in nove “racconti”, ciascuno con un proprio carattere ma con dei denominatori comuni, ossia il linguaggio, le tematiche, le sonorità distorte e le atmosfere tipiche del doom sabbathiano e dell’horror doom italiano (Paul Chain e affini). La scelta stilistica è quanto mai appropriata, perché qui si parla di ministri di fede deviata, di stregoneria, di diavolo, abissi e simili amenità, ma il titolo non può non richiamare anche alla memoria uno dei casi (insoluti) più intricati e inquietanti della nostra storia recente (il caso Calvi e il ponte dei Black Friars). Si ritrovano tanti particolari, o accorgimenti, che caratterizzavano l’impronta di questa band negli album passati (come i campionamenti e la recitazione), però adesso la sua musica tende a essere più pesante, ruvida e cupa. Non appena si appoggia la puntina sul bordo del picture disk vorticoso (bello!), si entra subito nell’incubo, e raramente un’introduzione strumentale è così efficace come “Atomium”, in cui le vibrazioni fuzzy della chitarra riverberata di Kjxu tessono un ritornello dissonante e inquietante, sovrapponendosi al rumore di fondo, un fruscio ritmico e quasi rituale a metà tra i sonagli di un serpente velenoso e quelli dei misteriosi Mamutones. L’oscurità diventa ancora più fonda se poi arriva il classicissimo rintocco a morto della campana (l’abbiamo sentita tante di quelle volte, ma ci piace sempre!), seguito da un bel riffone grezzo, grave e carico di groove drogato à la Electric Wizard, a condurre la prima delle corpose ballate dell’album: la title-track, “Cult Of Black Friars”. La bella voce di Kjxu è effettata, sdoppiata e fluttuante, come un ectoplasma dispettoso, ma a un tratto ci pensa un’orazione in latino a imporre l’aura occulta che conviene, niente meno che la formula per diventare membri della congrega segreta maledetta, il Culto dei Frati Neri.

Manus Domini sumus. Caeli enim facimus voluntatem. Suprema lex justitiæ verbum Domini. Exercitu Domini sumus. Invictamque vis qui ponit nos super renes. Adventus adventus adventum. Tempore dominabus venit sic vestri finis est hic.

“Hammer Of The Witches” è un’altra lunga ballata doom ortodossa – sorretta dal ritmo cadenzato del riff portante – che gronda groove stoner, ma scarno e ipnotico nella sua ripetitività circolare. La voce, spesso (ancora) fortemente riverberata, viene sopraffatta più volte dalle chitarre, ma si ripete il trucco “ectoplasmatico” di prima, per continuare a confondere, o intimorire, l’ascoltatore (che non aspetta altro…). Durante la seconda metà, però, si gode della “rottura” del vortice ipnodoom con l’assolo del chitarrista guest Luca Catapano dei Black Wings Of Destiny.

Intro a parte, ci sono varie altre tracce strumentali, più brevi di quelle cantate, e diverse l’una dall’altra sia come stile, sia come funzione. Tre di queste occupano il cuore dell’album. Si comincia con “Riding The Devil’s Horses”, un intermezzo stoner doom galoppante (appunto), heavy sì, ma disinvolto, abbastanza da alleggerire l’aria da cripta del resto. Crea però sorpresa il suo abbinamento con la melodia malinconica, quasi arcadica, che segue: “Animula Vagula Blandula”. Ci trasportano istantaneamente in secoli passati e lontani sia il titolo (l’epitaffio dell’imperatore Adriano), sia il suono delicato del flauto (di Alessandra Cornacchia dei Sacred Sword). Quest’ultimo s’intreccia delicatamente con la chitarra acustica, poco prima che quelle elettriche tornino prepotentemente alla ribalta. Brevi intermezzi nuovamente acustici e l’unione dei riff sempre con la voce del flauto danno un sapore dolcemente malinconico e retro-prog à la Jethro Tull o – per restare orgogliosamente in Italia – à la Osanna. Il poema di Adriano viene recitato verso la fine di questo brano raffinato. Poi, con “Cat People”, si ripassa al metal, scalpitante, con campionamenti da film horror in apertura, come un miagolio di gattino che, dopo schianti, si trasforma in un ringhio bestiale. “Cat People” è doom metal sfrontato, mascolinamente fuzzy, buono per far sgranchire il collo e scuotere le chiome (e le barbe).

La suite “From The Abyss” ci richiama all’ordine con una voce perentoria che declama versi tratti dal libro del Leviatano e poi con l’attacco vigoroso di quella che sarà una cavalcata doom ortodosso tra Cathedral e Saint Vitus. Gli artifici che distorcono e frammentano la voce non sono gli unici sistemi per alleggerire la pulsazione oppressiva del riff portante: a un certo punto sarete sconcertati dal trovarvi in mare, con lo sciabordio rinfrescante delle acque. Ma è tutta un’illusione: il dolce frangersi delle onde e uno scricchiolio leggero rompono questo silenzio da nave fantasma o da bonaccia che precede un disastro, cioè l’emersione del mostro marino, mentre una nuova voce lo evoca sussurrando una poesia a tema, il sonetto “The Kraken” di Tennyson. Questo è il cuore atmosferico della ballata, improvvisamente ingoiato dalla ripresa del gorgo denso del doom, che quasi materializza le spire della piovra. Con la sciamanica “Arcane Sorcerer”, invece, ci si cala in un seducente incantesimo evocato da un intreccio di atmosfere e sonorità psichedeliche/desert rock. Ho letto a riguardo che la band siè ispirata a un film di Pupi Avati, “L’Arcano Incantatore”. A me  “Arcane Sorcerer” ricorda un rito esoterico, ed esotico, a base di fumi e funghi allucinogeni, davanti a un fuoco, sotto il cielo stellato e terso del deserto.

Tocca a un brano lisergico, crepuscolare, chiudere l’album. È questo forse il momento in cui la band ritorna, anche se per poco, a rinverdire la propria componente psichedelica, anche se – più che di elettronica o di strumenti particolari – qui si fa uso di voce, chitarra acustica e pochi effetti. Introdotta dal canto mesto di Rachela e da tocchi rapidi di una chitarra acustica (da parte del guest Toro), “To The Shores Of Distant Stars” è sommessa e malinconica, ma quando partono le ondate di space psichedelia, fatte di vibrazioni ed echi, si ricomincia a fronteggiare l’ignoto, e quasi quasi torna il senso di paura.

Trovate questo bel lavoro in formato lp picture disk, ornato nientemeno che dalla mano di Vance Kelly di AVK Studios (Down, the Sword, Graveyard, ecc.), presso il sito dell’etichetta tedesca Funeral Industries.

Tracklist

01. Atomium
02. Cult Of Black Friars
03. Hammer Of The Witches
04. Riding The Devil’s Horses
05. Animula Vagula Blandula
06. Cat People
07. From The Abyss
08. Arcane Sorcerer
09. To The Shores Of Distant Stars