BETHAN KELLOUGH, Aven

Come nasce questo breve Aven? Bethan Kellough ha preso parte a un workshop di Chris Watson, il quale, oltre a essere un ex Cabaret Voltaire, è uno dei punti di riferimento per chi si occupa di field recordings. Successivamente è stata a un’iniziativa simile di Francisco López, altro sound artist fondamentale in quest’ambito. Con Watson Bethan era in Islanda, infatti il disco inizia con i suoni catturati all’interno di una spaccatura della superficie dalla quale usciva del vapore. Con López è stata in Sud Africa, dove ha sistemato i suoi microfoni in giro subito prima di un temporale. L’energia del sottosuolo e del vento, a livello sonoro, dà spazialità, fisicità e grande potenza all’album, mentre a livello narrativo ci avverte della forza della Natura. Kellough non si accontenta e su quest’elemento “concreto” ricama con archi, piano e interventi digitali, rendendo il tutto (forse un po’ troppo) drammatico e solenne, tanto che sembra di stare al cinema. La bellezza di Aven è possibile proprio grazie alla poliedricità di Bethan, che ha sfruttato al meglio le registrazioni che ha raccolto, restituendoci la grandiosità delle sue sorgenti sonore senza riproporle in modo pedissequo o aggiungendo giusto qualche drone per dare continuità all’insieme, perché ha anche avuto il coraggio di mettersi in gioco come compositrice.

Non credo sia un caso che Paul Jebanasam abbia apprezzato pubblicamente questo disco, come non è affatto strano che gliel’abbia consigliato Roly Porter. Mi sa insomma che Touch ha scoperto un nuovo talento. E lo sta pure coltivando, come fa con quello di Claire M Singer.