BEN LAMAR GAY, Yowzers
Ben LaMar Gay possiede come pochi l’arte e il gusto del racconto. E come pochissimi sa perfettamente come usarli in maniera seducente.
Abbiamo visto di recente una foto di parecchi anni fa di Luciano Rossetti che ci ha riportato alla memoria un suo passaggio italiano al festival “Ai confini tra Sardegna e Jazz” – diretto dal compianto Basilio Sulis – in seno alla formazione guidata da Ernest Dawkins, ma fondamentalmente è un musicista che abbiamo conosciuto grazie all’album rivelazione, uscito nel 2018, Downtown Castles Can Never Block The Sun, per poi scoprire che si trattava in realtà di una raccolta, una compilation con brani tratti da sette lavori mai pubblicati prima, ma perfettamente compiuti e ben diversi l’uno dall’altro!
Insomma, il biglietto da visita di Ben LaMar Gay è stato un paradosso. Come dire: prima il riassunto, poi il dettaglio, prima il Greatest Hits! e poi i singoli album.
Ma già quel disco possedeva e dimostrava, paradigmaticamente, le meravigliose alchimie sonore delle quali il giovane trombettista e multistrumentista è capace.
I sette dischi sono poi stati pubblicati a stretto giro, mostrando un musicista completo, maturo, in grado di muoversi con disinvoltura dalla forma canzone (per dirne solo una, “Oh Great Be The Lake”, tratta dal suo lavoro del 2021 Open Arms To Open Us, sarebbe stata benissimo nel repertorio di Robert Wyatt!) a brani più marcatamente e squisitamente jazzistici, dal richiamo alla grande tradizione della musica nera alle suadenti atmosfere brasiliane fino all’improvvisazione libera o allo spiritual (e in questo senso va citata la sua partecipazione al progetto Black Monks dell’artista multimediale Theaster Gates).
Il disco è costruito sull’alternanza tra brani eseguiti dal quartetto di LaMar Gay, composto da Tommaso Moretti alla batteria e alle percussioni, Matthew Davis, tuba e pianoforte, e Will Faber alla chitarra e allo ngoni – un quartetto attivo da anni, che si muove telepaticamente – e composizioni realizzate in studio avvalendosi della presenza di Rob Frye e di un piccolo coro con le cantanti Ayanna Woods, Tramaine Parker e Ugochi Nwaogwugwu. Un piccolo squarcio della memoria ci restituisce quest’ultima come cantante – insieme a Dee Alexander – nel Black Earth Ensemble di Nicole Mitchell che si esibì a Roma, nel 2006, in seno al festival Le Labbra Nude.
Yowzers è un disco magnifico, che non ci si stanca di ascoltare, pieno di cose diverse, di storie che si intrecciano e diventano memoria collettiva, di salti temporali e slittamenti sonori, di passaggi emozionanti e fugaci, un album che si nutre del tempo e della storia, capace di rappresentare perfettamente quello che Amiri Baraka chiamava ‘The changing same’, lo stesso che cambia, ponendo la trasformazione come base dell’identità.
Tra tutti i brani dell’album rimangono nel cuore l’omaggio a Jaimie Branch con l’elegiaca “For Breezy”, l’ondivaga “John, John Henry”, dedicata al popolare eroe e attraverso lui al folklore afroamericano e la splendida invocazione “I Am (Bells)” che si accende della magia e dell’incanto delle piccole campane, e che inaspettatamente si risolve con quella tuba malandrina che sembra rendere omaggio a un altro grande chicagoano, Henry Threadgill.