BEACH HOUSE, Once Twice Melody

Una volta, due volte, infinite volte Beach House. Il duo statunitense è da arresto: sfornare dischi uno dopo l’altro a questo livello qualitativo, nel songwriting e nell’impeccabile foggia sonora, è quantomeno sospetto, se non illegale, punto e basta. Invece qui gli unici prigionieri siamo noi in ascolto, per la precisione quello del loro ottavo full length dal 2006 a oggi, per forza di cose non significativo come Teen Dream o l’inarrivabile Bloom, ma ciononostante un’autentica goduria. Abbiamo a che fare addirittura con un doppio di diciotto brani e di questi tempi eccellere in abbondanza, come fatto in area indie folk-rock e in maniera più frammentaria anche dai Big Thief, sembra un atto di dissenso nei confronti della fugacità imperante. Nonostante la carne al fuoco aumenti, dunque, lo stato di grazia per Victoria Legrand e Alex Scally rimane immutato, per un’ispirazione che si lancia con leggerezza nell’aria, ben al di sopra di qualsivoglia interrogativo terreno.

La premiata ditta, peraltro, continua a toccare con mano piccole ipotesi di variazione nell’idea della veicolazione della musica. Se con Depression Cherry e Thank Your Lucky Stars si era tentata nel 2015 la carta della doppietta a sorpresa a pochi mesi di distanza, Once Twice Melody è stato suddiviso in quattro blocchi di quattro-cinque canzoni ciascuno, e ciascuna canzone provvista del relativo lyric video animato d’autore, spesso e volentieri super lisergico. A partire dallo scorso novembre, grossomodo ogni mese è stato pubblicato un capitolo, quasi come fosse un ep a sé stante, sino ad arrivare il 18 febbraio alla raccolta completa – ma per l’uscita fisica su Bella Union dovremo attendere l’8 aprile.

Le registrazioni si sono svolte tra Los Angeles e la natia Baltimora. Oltre a comporre ed eseguire, Legrand e Scally si sono occupati di arrangiare – salvo la novità di un ensemble di archi, affidato magnificamente a David Campbell – e produrre in inedita autonomia il tutto, supportati in fase di mix in prevalenza da Alan Moulder. Ne è uscito fuori un concentrato scintillante di pura anti-materia Beach House, quell’incandescenza dalla levità gassosa che avvolge nella stessa bruma gli inevitabili retaggi 4AD e le vellutate fusioni Badalamenti-Julee Cruise. Il sound, comunque sia, si fa più magniloquente e stratificato, con un’accezione fortemente psichedelica ed espansa del dream pop, capace di sposare elettronica vintage e barocchismo in perfetto controllo, di guardare sia agli Stereolab sia agli Spacemen 3 (Sonic Boom, del resto, aveva dato una mano per il precedente, più cupo 7 del 2018).

Giro uno con i synth porpora che profumano solitudine di una title-track da ipnosi, le comete in scia The Smiths di “Superstar”, il lago dei cigni della teatraleggiante “Pink Funeral” e le trasparenze della sinestetica “Through Me”. E giro due con le pulsazioni argentee di “Runaway”, la telepatia di “ESP”, le allucinogene fiabe notturne tra Animal Collective e Flaming Lips di “New Romance” e i bagliori lunari dell’estesa “Over And Over”. E giro tre con la dolcezza acustica di “Sunset” e il calore di una “Only You Know” che scioglie il cuore (ricordandoci la sottovalutata band londinese Eaux), le melodie da giramento di testa di “Another Go Round”, le sfumature al nero sulla regalità wave di “Masquerade” e la rinascita nella luce vagamente jazzy della correlata “Illusion Of Forever”. E giro quattro con l’eleganza imperiosa di “Finale”, lo swing astrale di “The Bells”, il romantic beat post-80s di “Hurts To Love”, la ballad da Roadhouse “Many Nights” e la chiusura da grande schermo di “Modern Love Stories”. Dream pop per sognare, sarà banalissimo dirlo, oppure per vivere direttamente dentro al sogno. Attenzione, però: who is the dreamer?