ATTILIO NOVELLINO / COLLIN MCKELVEY, Hypehunt (Random Numbers Split Series Vol​.​ 5)

Questo è l’ultimo di una serie di cinque split coi quali il collettivo “elettronico” bolognese Random Numbers ha fatto il tentativo di dare uno spaccato della scena “sperimentale” italiana: i nomi già apparsi sono Healing Force Project, Massimo Carozzi, Somec, il nostro beniamino Von Tesla, Gattobus, Bartolomeo Sailer, Mudwise, Voltair. Questa puntata ha due particolarità: non è 100% italiana, è collaborativa. Di (e con) Attilio Novellino abbiamo già parlato molto, mentre non si sa nulla – o quasi – di Collin McKelvey, americano, con studi artistici e approccio multidisciplinare, noto anche come Orbless (progetto solista basato su synth e field recordings).

Questo split si intitola Hypehunt e, a leggere il comunicato di Random Numbers, nasce dal chiedersi se seguire le tendenze dominanti in campo musicale sia una scelta reale o una sorta di conformismo dettato da ragioni di sopravvivenza. Dal punto di vista del “processo”, ci viene detto che in ballo ci sono diversi mezzi e diverse tecniche di composizione, quindi strumenti acustici, sintetizzatori e field recordings cuciti insieme sia attraverso vecchie soluzioni analogiche, sia attraverso software, per un lavoro che di “hype” non ha assolutamente nulla: siamo di fronte a un collage piuttosto libero, composto da frammenti, probabilmente passati attraverso mille filtri, che in qualche modo – tra vuoti e sbalzi improvvisi – fanno un giro di giostra insieme (a due a due o a tre a tre) per qualche tempo. È impossibile assegnare un genere ad Hypehunt, il che potrebbe essere una cosa meravigliosa, ed è difficile pensare che ci sia un piano dettagliato dietro: sembra che Novellino e McKelvey si siano scambiati materiale e lo abbiano ri-elaborato a briglia abbastanza sciolta. Ogni tanto appaiono degli spezzoni che possono essere attribuiti all’italiano (certe parti più drone e morbide), ma vengono subito coperti da altri, spesso più dark e taglienti. Volendo forzare, Hypehunt è “noise”, perché dentro di sé pare avere elementi di casualità o improvvisazione e sembra volutamente essere altro da un qualsivoglia stile (magari ne frulla tanti nello stesso contenitore). Si tratta di un lavoro che potrebbe generare qualcosa di nuovo, che ancora però non c’è.