ASSUMPTION, Hadean Tides

Il secondo album degli Assumption non potrebbe essere più esplicito e diretto, a partire dal titolo: Hadean Tides, uscito lo scorso 20 maggio su Everlasting Spew Records, è un inno al death-doom più apocalittico, dove ritmiche lente ma sostenute si fondono con un cantato tombale molto efficace, che trascina chi ascolta in un vortice infernale e soffocante.

Le sette tracce, per un totale di circa 55 minuti di musica, mantengono un buon equilibrio tra i due sottogeneri, in quella alchimia ormai ben consolidata ma sempre soggetta a un’interpretazione personale, cosa in cui i due fondatori Giorgio Trombino e David Lucido (ai quali si sono da poco uniti Matija Dolinar, chitarrista, e Claudio Troise, bassista) mostrano una certa competenza e maestria, complice anche la loro capacità di reinventarsi suonando varie sfaccettature del metal estremo nelle tante band di cui fanno o hanno fatto parte insieme, con ottimi risultati.

Hadean Tides colpisce perché mette insieme gli aspetti più tradizionali del death-doom e la ricerca di soluzioni creative fuori dagli schemi, ma sempre coerenti con un’estetica ben nota: è quasi palpabile un amore smisurato per le produzioni d’Oltreoceano degli anni Novanta (imprescindibili i Winter e compagnia bella), ma siamo ben lontani dal portare all’esasperazione i soliti cliché, per quanto sia certa che un album del genere possa trarre in inganno anche i nostalgici brontoloni che boicottano qualsiasi cosa prodotta dopo il 1996 (e sto arrotondando per eccesso…).

La componente atmosferica data dall’uso dei synth è uno dei “fiori all’occhiello” del disco, complesso nella sua assoluta godibilità: la strumentale “Breath Of The Dedalus”, per esempio, trasmetter terrore e oscurità con una raffinatezza rara, facendo letteralmente da spartiacque tra la prima e la seconda metà del lavoro. Nelle ultime tre tracce prevale un approccio doom, in un’accezione che ricorda molto da vicino alcuni lavori degli Evoken. Il cantato inusuale e inaspettato su “Tryptich” è uno dei momenti più ipnotici e interessanti: una sorta di cantilena spettrale in cui la centralità della parola ha una potenza evocativa incredibile, che poi si trasforma in una cavalcata death metal “vecchio stampo”. Personalmente, penso sia l’episodio migliore di tutti e un esempio brillante di come si possa sperimentare senza rinunciare a una certa coerenza narrativa, in una ricerca di contaminazioni tanto sfrontata quanto spontanea, d’altronde – come detto – è innegabile che questi ragazzi abbiano le spalle abbastanza larghe da potersi permettere divagazioni in diverse direzioni, senza “perdersi” o apparire inconcludenti o persino pretenziosi.

La chiusura di Hadean Tides è affidata a “Black Trees Waving”, un macigno di quasi quindici minuti sorprendentemente scorrevole grazie a una grande varietà interna che lo rende quasi una suite da oltretomba. L’assolo di chitarra, verso metà brano, è una vera e propria chicca che ho apprezzato particolarmente.

Hadean Tides, in conclusione, è ricco di spunti, articolato, complesso, dotato di un songwriting intelligente, ben arrangiato e ben prodotto. Non escludo possa diventare un classico nel suo genere, ma nel frattempo lo annovererei sicuramente tra le migliori uscite del 2022 finora, certa che lo riconfermerò nella mia personale top ten di fine anno.