ART ENSEMBLE OF CHICAGO, 21/10/2017

Reggio Emilia, Teatro Ariosto, Aperto Festival. Foto di Alfredo Anceschi, che ringraziamo.

La città nuda, gli enigmi della foresta, le gabbie senza sbarre di John Cage, un vento chiamato Bob Rauschenberg, i piccoli strumenti, le grandi migrazioni, il post-modernismo, Dada was black, la poesia, nello spazio sto, dentro di me, nello spazio, fuori di me, nello spazio, eccetera, Marcus Garvey, la musica contemporanea, la musica primitiva, il ‘68 a Parigi, i pugni chiusi di Tommy Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Monaco nel 1972, la furia della matematica che non è altro che madre e ritmo, maschere da coltissimi selvaggi, un’Africa iperreale e immaginaria, vicinissima e imprendibile, pigmei a Darmstadt e nessun tentativo di scrivere jazz potrà mai afferrarlo per intero, il glorioso e intatto mistero delle Great Black Music di Art Ensemble Of Chicago, semplicemente una delle esperienze (gruppo sarebbe riduttivo) più significative di tutta la musica nera e non solo del Novecento. Il problema, sia detto con rammarico e con quel pizzico di sfrontatezza necessario dalla nostra umile posizione, a togliere la polvere dalle magnifiche statue, che quelli di stasera di quell’esperienza straordinaria conservavano solo il nome. Serbavo un ricordo luminoso e potente del concerto che la band, in quartetto, fece nel 2006  fa al Piacenza Jazz Festival, con ancora Jaribu Shahib al basso (Favors era morto due anni prima) e Joseph Jarman ai sassofoni. Al posto di Bowie allora alla tromba sedeva il giovane Corey Wilkes ma non c’era stato spazio per la pur legittima e sana nostalgia per l’assenza dei grandi. Oggi invece i sostituti, per così dire, hanno a dire il vero fatto rimpiangere chi c’era prima di loro; non è solo questo però il punto, ma il fatto che in generale in un’ora di concerto di musica davvero pregnante ed intensa se ne sia sentita in effetti poca.

Eppure il grande Roscoe solo pochi mesi fa si era presentato in forma ad Angelica, improvvisando in una chiesa con l’organista Filidei, mentre a gennaio in sestetto (con la nostra Silvia Bolognesi ad uno dei due contrabbassi) alla rassegna “Aperitivo in concerto” al Teatro Manzoni (che peccato doverne segnalare la scomparsa!) aveva dato schiaffi a tutti con un live devastante.

La statura del leader della band non è e non può essere messa in discussione: stiamo parlando di uno dei più grandi musicisti viventi, oramai un compositore a tutto tondo da lungo tempo, oltre che un grande jazzista, uno che ha sempre contribuito a spingere in avanti i limiti della musica, un artista dotato di talento, coraggio, rigore e coerenza notevolissimi. Però stasera è mancato qualcosa: forse dipende in parte dal livello altissimo a cui Mitchell ci ha abituato, ma il live ci è parso raccogliticcio e senza poesia. Si inizia come di consueto con l’Africa remota e paradossale dei campanelli, a un passo dal silenzio zen: subito si avverte in modo palpabile un che di interlocutorio, il solito afflato riduzionista che caratterizza da sempre gli inizi dei concerti della band stavolta ha poco dell’urban magic che lo ha sempre contraddistinto. In questo clima circospetto e guardingo il contrabbasso (Junius Paul, non memorabile), suonato con l’archetto, vaga tra nebbie contemporanee, Don Moye alla batteria è solo decorativo, mentre Dudù Kouate (per la cronaca, un sosia sputato del Don Cherry che appare sulla copertina della favolosa compilation Jazzactuel della Charly) dialoga con mille percussioni. Non c’è tensione però, e dopo un climax mai raggiunto e probabilmente mai nemmeno cercato, restano da soli Moye e Kouate, per un momento ora sì poetico col primo ai bonghi e Dudu a districarsi tra giungle di ipotesi, ritmi che appaiono e scompaiono come bolle d’acqua, ombre, bei colori.

Finisce così la prima lunga improvvisazione, e subito Roscoe riparte con un proverbiale saggio della sua capacità acustica al sax alto: respirazione circolare, satori e furore, mentre la tromba di Hugh Ragin tace quasi con timore reverenziale, per poi affacciarsi da sola su un registro più classicamente post-bop, senza però far pensare a un momento di grande ispirazione. Il dialogo tra i due fiati, che tendono ad agire come due entità separate più che come una sezione (e in effetti deve essere difficile tenere testa a quel demonio di Mitchell, ancora una volta impressionante nella sua capacità di controllo del suono, nella potenza, nel nitore e nella indomita voglia di spingere sempre in avanti le frontiere della sua indagine) è  occasionale ma benvenutissimo, poi prende finalmente piede il consueto e atteso maelstrom, ma si avverte abbastanza nettamente la mancanza di una sezione ritmica che funga da motore propulsivo. Dal caos poi emerge il primo e unico tema, quello classico e sempre fantastico di Odwalla, accolto con un fragoroso applauso (il concerto è piaciuto molto al folto pubblico accorso, c’era gente che è arrivata da Pisa, da Trieste, per quello che a tutti gli effetti veniva considerato un evento), sul quale poi Mitchell fa le presentazioni. Tempo di un breve bis sempre improvvisato e la serata finisce.

Come detto, probabilmente avevamo aspettative troppo alte, ma il dispiacere di un concerto dimenticabile ci deriva dalla biografia straordinaria di Mitchell (ed anche di Moye, in questi giorni ascoltavamo A Simphony Of Cities, disco in quartetto del 2002 su Southport che si apre con la splendida suite “Afro Asian Reflections”, e ci sembrava davvero magico, mentre stasera abbiamo visto un musicista stanco e poco ispirato) e dal dover constatare che quest’incarnazione (l’ultima?) dell’Art Ensemble non è riuscita stasera a tenere il passo di ciò che fu anche solo pochi (il nome è in giro da mezzo secolo) anni fa. Beauty is a rare thing, d’altra parte, come titola il cofanetto antologico di un altro mammasantissima, Ornette Coleman. “Dispositivi Meravigliosi” è il titolo del Festival Aperto, che tra settembre e novembre propone a Reggio Emilia danza, musica, teatro, con diverse produzioni dedicate e gli occhi sempre ben spalancati sulle infinite possibilità del presente ( potete consultare il programma qui). Lo spirito, fedele al proprio nome, aperto della rassegna, che da molti anni (prima si chiamava Rec) propone in queste lande baciate dalle magnifiche sorti democratiche e progressive indagini a tutto campo sull’arte contemporanea, resta assolutamente da encomiare, ma  stasera i dispositivi non funzionavano troppo bene e, ahinoi, non hanno prodotto meraviglia.