ARCADE FIRE, Pink Elephant
Da assoluto neofita dei canadesi Arcade Fire tre sono le ragioni per cui mi sono messo all’ascolto del loro nuovo, settimo album, Pink Elephant:
1) le reazioni negative da parte dei fan di lunga data.
2) sapere che la produzione dell’album era stata affidata a Daniel Lanois.
3) dal ricco archivio di The New Noise constatavo che delgi Arcade Fire il giornale non si occupava dal 2014 e insomma una ragione per questa assenza prolungata ci doveva pur essere, scagionandomi, forse ed eventualmente, da una lunga distrazione nei loro riguardi.
Tutto ciò ha fatto suonare il campanello d’allarme che questa invece fosse l’occasione buona per ascoltare la stracelebrata band canadese e in effetti – ma che cazzo – questo è un gran disco di post-punk contemporaneo, bello, non facile, oscuro ma tutt’altro che nichilista.
“Open Your Heart Or Die Trying” ha un incipit elettronico ragionevolmente allarmante con tanto di sirene ad accoglierci per questi tempi bellicosi, potrebbe anche suonare da main title dello score di “Dune” o meglio di “Apocalypse Now” con il secondo pezzo, “Pink Elephant”, che subentra mentre il protagonista distrugge ma al ralenti gli interni di una topaia d’albergo. Nella voce di Win Butler si odono echi del David Crosby più acido ed è questa una delle tante rivelazioni, almeno per il sottoscritto, che riserva l’Elefante Rosa. Poi arriva “Year Of The Snake” e siamo dalle parte degli immensi Wire, Pink Flag-era, ma la voce di Régine Chassagne ricama in controluce una tessitura tenue, duettando infine con il coniuge Win Butler ad epilogo delle burrascose vicende matrimoniali e conseguente periodo di merda vissuto dai due. “Circle Of Trust” parte meglio di un qualsiasi pezzo di The Human League rivisto e corretto al gusto attuale e sono ancora in evidenza le squisite trame vocali fra Win e Régine, che si concludono in un crescendo ritmico à la Talking Heads: ok, siamo al quarto step e il disco cresce pezzo dopo pezzo.
Il lato B inizia con “Alien Nation”: “…Black friday cyber attack, freeway fracking, sky is cracked, sing with the Congregation, fly down the inner State, self care, self hate …”, il groove si ingarbuglia per bene scurendosi assai, un micropunto di LCD Soundsystem a impreziosirne l’intreccio, ma per il resto è tutta farina Arcade Fire. Il breve intermezzo strumentale di “Beyond Salvation” introduce l’ultima parte dell’album con la fantastica sequenza di “Ride Or Die”, una confessione acustica evanescente, incantatoria, mentre benevolo si riaffaccia il fantasma di Crosby. “I Love Her Shadow” sembra un gran pezzo da Radio FM indie (se ancora ci fossero), ma il bello deve ancora arrivare perché chiudono, anticipati dall’ambient di She Cries Diamonds Rain, i sette minuti ipnotici, frenetici di “Stuck In My Head”, pezzo che da quel che ho capito ricorda gli esordi degli Arcade Fire ma con una rinnovata austera estetica perché, repetita iuvant, alla regia del suono c’è lui, Daniel Lanois, e caspita se si sente.