ARBOGAST, I

Arbogast - I

I, titolo essenziale per l’album di debutto degli Arbogast, americani di Chicago, pubblicato a inizio dicembre 2012  dall’altrettanto americana Nefarious Industries. Dopo tre uscite minori, tra le quali un breve ma interessante split con A Fucking Elefant (sempre su Nefarious), gli Arbogast dispiegano definitivamente le ali con 11 tracce, per quasi 43 minuti che passano in un lampo, annientati dalla carica di questa band dal suono ibrido e veloce.

La copertina è semplice e lugubre, con la sua distesa di uccelli neri morti contro un orizzonte piatto arrossato, e pure le tematiche affrontate nei testi sono cariche di pessimismo. Tuttavia ho trovato questo disco (musicalmente) divertente, perché pieno di sorprese. Inizialmente lo stile eccentrico della band può lasciar spiazzati, può portare a chiedersi “alla fine, come vogliono suonare questi?”, ma basta lasciar da parte domande inutili e farsi trascinare nel vortice da questi tre pazzi: Aaron Roemig alla voce e al basso, Mike Scheid a chitarra, voce e tastiere, e Mike Rataj, ambidestro, alla batteria.

Sono pazzi, nel senso di mattacchioni, perché è da burloni iniziare un album come I con un intro malinconico, adatto per un disco di neo-folk o di doom atmosferico. Bastano meno di due minuti, però, per scatenare l’uragano Arbogast, che pesca – o entra ed esce liberamente – da sludge, hardcore, noise, post-rock, doom, thrash, prog, jazz, rockabilly, punk, d-beat e forse anche un po’ dallo ska.

Divagazioni a base di sludge/doom impregnato di groove e di furia hardcore, contaminato da prog, noise e dissonanze post-metal/post-rock, caratterizzano un po’ l’ossatura del suono degli Arbogast, sulla quale poi si innesta tutto il resto, con delle variazioni di tempo frenetiche. Perciò, per vari motivi, gli Arbogast mi hanno fatto venire in mente band un po’ diverse tra loro: Mastodon, Kylesa, 16, Ken Mode, Red Fang, Neurosis, D.R.I e Unsane. I generi esplorati da questo trio così versatile, quindi, sono innumerevoli. Due cose però non cambiano mai: la tensione e la potenza del suono, foraggiate da una chitarra urlante, da vibrazioni di un basso iper-distorto, dalla frenesia sincopata della batteria e dall’aggressività della doppia sezione vocale.  I tratti che più mi hanno stupito del suono degli Arbogast, comunque, sono la naturalezza e la contagiosità: pattern di melodie, tempi e metriche intricati che magicamente si districano da soli, e perciò diventano avvincenti invece che artefatti, cervellotici o pomposi. Forse perché quando il gruppo, nelle sue scorribande, indulge in territori prog/doom/sludge/post-rock, ne è poi bruscamente trascinato fuori dalle sfuriate hardcore, come ad esempio in “Will & Destruction”, o dalla vitalità sfrontata di thrash/rockabilly e noise, come nella divertente “Unnamed Guns”. Che sia l’estro del batterista acrobatico che trascina gli altri due? Da blast beat tuonante a pattern sincopati jazz a ritmi d-beat… Ad ogni modo, l’intesa che c’è tra questi musicisti è magica e la produzione, nelle mani di Andy Nelson (di Weekend Nachos e Like Rats), riesce a esaltare sia quest’alchimia sia la potenza ruvida del suono.

L’album è chiuso dalla ballata strumentale “Soulsfate”, una bella cavalcata attraverso i generi in cui forse l’assenza del cantato scabro aiuta a richiamare l’atmosfera con cui l’album è iniziato.

Se vi piace esser spiazzati…