Aperto Festival finora (Zappa, Tarozzi-Walker, “Cold Blood”, Rezza…)

Yellow Shark di Frank Zappa

Reggio Emilia, Teatro Municipale Valli e Teatro Cavallerizza.

“Passaggi (Canzoni/Rivoluzioni)” è il sottotitolo di questa edizione dell’Aperto Festival, che in questi tempi nostri democratici (?) e (poco) progressivi continua con ferma ostinazione a offrire a Reggio Emilia una cornucopia di spettacoli di ogni tipo, dalla musica al teatro e alla danza, dimostrando che è ancora possibile sperimentare anche partendo dalle istituzioni. Nello specifico qui si parla dei Teatri di Reggio Emilia, la città dove il vostro cronista vive da sempre, centosettantamila anime nella piana ipermercata (azzeccatissima definizione coniata da Vinicio Capossela tempo fa) e un’offerta culturale probabilmente molto buona, di sicuro in passato anche eccellente, per le sue dimensioni. Ma si sa, l’erba del vicino è sempre più verde e l’essere umano è abituato spesso ad essere scontento. Potrei aprire qui una lunga parentesi su come siano cambiate profondamente le cose qui dagli anni Novanta, quando per venire al Maffia di Viale Ramazzini si facevano macchinate da ogni dove, anche da Roma, quando al Red Ko al Buco del Signore (ora ci hanno fatto una pizzeria lì, e si chiama il Buco della Signora, questo la dice lunga sulla china che abbiamo preso) assistevo ragazzino ai primissimi concerti di Massimo Volume e Marlene Kuntz, o vedevo Bästard oppure band della Alternative Tentacles. Il focus del pezzo però è un altro: Aperto Festival, dicevamo. Nata dalla crasi tra Rec, il festival di musiche e arti performative contemporanee e il Red, il festival di danza, la rassegna dimostra la capacità di chi la organizza di fare di una limitazione (la contrazione delle risorse) una virtù, offrendo 27 spettacoli nell’arco di tre mesi, con prime italiane e prime assolute. Chi scrive negli anni ha avuto modo di vedere davvero di tutto grazie a questa rassegna: dalla Societas Raffaello Sanzio a William Parker, da Cecil Taylor a KTL, da Diamanda Galas ai Matmos. Anche quest’anno hanno scoperchiato il vaso di Pandora e abbiamo avuto lampi di grande bellezza.

Il mio personale excursus nella rassegna comincia il 12 ottobre  al Teatro Municipale Valli con Yellow Shark di Frank Zappa, eseguita dall’Ensemble Bernasconi dell’Accademia del Teatro alla Scala e diretta da chi già aveva avuto la bacchetta in mano per queste musiche 25 anni fa. Pubblico delle grandi occasioni per vedere dal vivo questa che è stata l’ultima opera discografica del geniale baffo di Baltimora. Tra pezzi scritti apposta per il Synclavier (una sorta di computer che già negli anni Ottanta permetteva la scrittura di partiture complesse), altri temi rock ri-orchestrati (ad esempio dal monolite Uncle Meat del 1969) e brani originariamente scritti per Pierre Boulez come “The Girl In The Magnesium Dress” (il disco da recuperare assolutamente qui è The Perfect Stranger del 1984), il concerto, intenso e torrenziale, anche se a tratti per il mio orecchio un filo ingessato, è la plastica dimostrazione del genio imprendibile di Zappa: semplicemente uno dei mostri sacri del Novecento, un compositore a tutto tondo, capace di far dialogare due mondi apparentemente lontani come il rock e la musica classica contemporanea. Non tutto, a mio modo di sentire, funziona alla perfezione (gli episodi più rock, adattati per largo ensemble acustico, perdono ovviamente qualcosa in termini di energia e di dinamismo), ma quando tutti i tasselli combaciano, il puzzle è semplicemente fantastico: musica che ha tutto il diritto di stare a fianco a quella dei giganti del secolo scorso, perché imprevedibile, aperta, inebriante. Bis infiniti e pubblico in visibilio per una serata preziosa. Il mood tipicamente beffardo e denso di humour delle musiche di Zappa (soprattutto nei pezzi non scritti per orchestra) sfida il linguaggio che si ritrova monco nel descriverlo: più di vane parole bastino i sorrisi larghi della maggior parte dei presenti. Come diceva lo stesso Zappa: “Informazione non è conoscenza. Conoscenza non è saggezza. Saggezza non è verità. Verità non è amore. Amore non è musica. La musica è il meglio”.

Silvia Tarozzi e Deborah Walker

Il 20 ottobre è il turno di Silvia Tarozzi e Deborah Walker, che sul palcoscenico dello stesso Teatro, in una cornice davvero magica (sembra di essere dentro a un sogno, con le sedie sul palco rivolte verso il teatro e le musiciste a dare le spalle alla platea e un po’ di fumo di scena a rendere il tutto irreale) presentano “Canzoni di guerra, di lavoro e d’amore”: un duo, violino, violoncello e voci, che riprende i canti delle risaie, dei partigiani, delle nonne, della montagna, mostrando come si possa ancora estrarre linfa viva e vitale dal folk profondo; è tutta una questione di sensibilità, che non difetta certo alle due musiciste, abilissime nell’estrarre gherigli di melodie nitide e oblique da gusci di musiche popolari. Tra composizioni autografe e un’attitudine piena di leggerezza calviniana, il concerto fila via in un batter d’occhio, ed è come un tuffo al cuore e nella storia, una riconnessione naturale e istantanea con un passato dal quale veniamo, specialmente nella nostra Emilia che fino a non troppo tempo fa fu per davvero rossa; Deborah Walker e Silvia Tarozzi frequentano abitualmente gli ambienti della contemporanea e dell’improvvisazione, e l’incontro tra questi universi solitamente accademici – e a volte un po’ rigidi – e le sterminate radici di musiche prevalentemente orali ha prodotto un piccolo gioiello: si va a spartito, ma la gabbia del pentagramma è aperta, le vicende che si raccontano, quasi sussurrate all’orecchio con un fare tra l’onirico ed il confidenziale, narrano del nostro passato ma, anche se tutto farebbe pensare che appartengano ad un mondo finito e sepolto sotto la cenere della Storia, in realtà parlano anche di noi, oggi. Un’operazione intelligente e sentita, vera, capace di ridare nuovo respiro a pezzi che, in questa veste, non mostrano nemmeno un’unghia di polvere.

Cold Blood

Semplicemente straordinario poi “Cold Blood”, andato in scena nell’ultimo fine settimana di ottobre al Teatro Cavallerizza. Come definire questo spettacolo? Cinema dal vero? Teatro al Microscopio? L’evoluzione degli spettacoli Son et Lumière? Una risposta cinematografica a quanto vedemmo anni fa sempre su questo palco con gli straordinari francesi Cellule d’Intervention Metamkine? Difficile spiegare a parole quanto visto, basti sapere che si tratta di una geniale sintesi tra teatro delle mani, visioni, poesia e scienza del dettaglio. Vado incuriosito dal fatto che tra gli autori ci fosse Jaco Van Dormael, regista del film “Dio esiste e vive a Bruxelles”, e surreale come quella pellicola, lo spettacolo svela l’artificio che mette in scena il suo racconto, per cui gli spettatori osservano lo schermo, posto a mezza altezza, ma al tempo stesso, sul palco, i creatori che mettono in scena in diretta quanto visibile su schermo. E allora i trucchi vengono svelati ma non perdono né in potenza immaginifica né in verità, anzi ne guadagnano infinitamente: una mano che danza nel buio, dei fiori che escono dalla neve, nell’arte come nella vita la suggestione è semplicemente tutto, e si esce da teatro con un misto di malinconia (lo spettacolo verte sul grande rimosso del nostro tempo, la morte) e di lievissima allegria, consci di aver visto qualcosa di raro e prezioso.

Antonio Rezza - foto di Giulio Mazzi

Che dire invece dell’imprendibile Antonio Rezza, di questo James Brown assurdista, questo maratoneta del delirio chirurgico e scientifico? In un Teatro Cavallerizza sold out (fortunatamente accade spesso con questo performer, giacché definirlo attore sarebbe davvero riduttivo) Rezza, muovendosi come un ossesso nelle scenografie minimali e notevolissime come sempre pensate e costruite da Flavia Mastrella, con “Fratto X” mette in scena ancora una volta la vanità del nostro linguaggio e delle nostre pretese di dare un senso all’esistente, che è grottesco se osservato e vivisezionato con sguardo sufficientemente lucido. E lo è sin troppo quello di Rezza, implacabile, capace di mettere a nudo l’aspetto demenziale delle cose, dei rituali, dei nomi: tra ballerine esistenziali con tutto il loro sovraccarico di problematica slovacca, cofanetti dei fratelli Karamazov, incredibili proto-rap liturgici (Rezza ha studiato teologia e questo ha lasciato profonde tracce nel suo lavoro teatrale), agguati alla famiglia, attentati, deragliamenti, scollamenti tra il significato e il significante, ginnastica estrema, ripetizioni, vuoti, spasmi, attese, una gestione dei tempi mozzafiato e un senso del ritmo che lascia allibiti, lo spettacolo, che coinvolge sul palco anche l’ottimo Ivan Bellavista, è stato ancora una volta un trionfo. Personalmente era la quinta volta che lo vedevo ed ancora non mi sono stancato né sono riuscito ad immagazzinarlo nella sua totalità sfrenata e nevrotica. Il geniale Antonio galoppa (poveri cavalli) sul palco e nelle praterie dell’immaginazione, riuscendo a farci pensare l’impensato, scardinando le certezze, cavando risate come si estrarrebbe un dente che duole; ci parla da una ferita, Rezza, dalla ferita della condizione umana, ma riesce a rendere tutto incredibilmente leggero, pur in un clima che sovente indugia alla minaccia; invidia profonda per chi non lo ha ancora mai visto e avrà una illuminazione di quelle che lasciano il segno quando vedrà un suo spettacolo (Rezza da anni gira per l’Italia come un rockband, in perenne tour con tutti suoi spettacoli a rotazione); meno invidia invece per lo spettatore a cui a questo giro è toccata l’ingrata sorte di impersonare il povero Maurizio (nel pirotecnico finale in cui il pubblico diventa parte integrante dell’azione scenica).

Aperto Festival proseguirà con Tango Glaciale Reloaded di Mario Martone, Buttefly di Kinkaleri e “The diary of one who disappeared” di Leoš Janáček, Annelis Van Paris e Ivo van Hove. Per tutti i dettagli, iteatri.re.it. Presto su questi schermi intervista a Roberto Fabbi,  una delle menti dietro Aperto Festival.