ANTHONY PATERAS

Pateras
Anthony Pateras, foto © Afarina

Anthony Pateras, australiano, a un passo dai quarant’anni, è un compositore. Suona il piano, piano preparato incluso, ma si confronta anche con l’elettronica, infatti nell’intervista che segue parleremo di come utilizza il registratore Revox. È clamorosamente eclettico: il suo nome forse ha girato un po’ di più quando nel 2014 è uscito Geocidal (folle e iper-ritmico) per Ipecac, realizzato con Mike Patton a nome Tētēma, con la partecipazione di Valerio Tricoli ed Erkki Veltheim (anche di questi ultimi due parleremo nell’intervista), ma lui era già attivo da una vita, suonava l’organo, scriveva per orchestre ed ensemble configurati in vari modi, e allo stesso tempo improvvisava in varie situazioni (leggo molti che menzionano il suo trio con Sean Baxter e David Brown, ma non c’è solo quello), senza dimenticare Pivixki, cioè batteria più piano per ottenere una forma inedita di grindcore. Vedremo che Pateras ha collaborato con altri artisti dei quali ci siamo occupati, passando dall’accademico – passatemi l’aggettivo – all’estremo apparentemente senza battere ciglio, di sicuro col desiderio di liberarsi da ogni possibile ingessatura e da eccessivo cerebralismo. Lo vedremo sabato 29 settembre a Firenze con eRikm, venerdì 5 ottobre a San Pietro al Natisone (UD) per Forma – Free Music Impulse e il giorno dopo a Bologna alla nuova edizione di Hypnomachia, curata da quelli di Xing.

“Immediata” è il titolo di una delle tue composizioni per orchestra (l’ho ascoltata) ed è il nome della tua etichetta. La parola “Immediata” ha origini latine, quindi il mio cervello la traduce automaticamente con “cose con niente in mezzo tra me e loro”. Forse per qualcuno “immediato” significa “veloce” o “molto vicino”, per me è “senza filtro”, “niente maschere”, “niente trucco”. Che significa per te?

Anthony Pateras: Per me significa “non troppo pensato”, ma allo stesso tempo molto curato e preciso. Mi piace molto la tua traduzione “cose con niente in mezzo tra me e loro”, perché è così che cerco di fare musica. Tento di non interferire col suono o di mentirgli. Per quanto riguarda il brano orchestrale, l’ho chiamato così pensando a “una pluralità o una simultaneità di cose immediate”. Si trattava di trovare la combinazione definitiva tra composizione scritta, pensiero improvvisativo e resa spaziale dell’elettroacustica. Non ha ovviamente funzionato fino a un livello simile, ma viste le mie esperienze nello scriverlo, usare il titolo anche per l’etichetta è stata una rivendicazione. L’orchestra lo ha tendenzialmente odiato,  e ho deciso a quel punto che dovevo fare le cose in un’altra maniera, ri-prioritizzare il mio modo di pensare musicale, comporre e pensare in modo diverso.

Hai detto che cerchi di non mentire al suono. Gli Aluk Todolo (uno dei miei gruppi preferiti degli anni 2000) si sono definiti “servitori della Musica”. Anche altre band e altri artisti considerano la Musica come un’entità e si vedono come un canale: quest’anno, parlando del loro album Kenosis, Massimo Pupillo degli Zu e Stefano Pilia degli In Zaire hanno detto: “Questa è musica che è semplicemente passata attraverso di noi”. Hai mai provato questa specie di misticismo? Non sono sicuro che tu consideri “l’essere immediati” come una sorta di potere magico…

Non sono coinvolto in magia o misticismo di per sé, nonostante quando accadono certi eventi musicali oppure si formano certe “costellazioni” musicali, ad esempio a un alto livello d’improvvisazione, c’è un non so che di magico o prodigioso che sta al di là del puro caso. Mi interrogo sulle origini di tutto questo. Anche in fase di composizione: quando arrivano le idee o ci sono delle rivelazioni, a livello formale o altro, qualche volta è difficile pensare che sia solo una combinazione di fortuna e intelletto. Da dove provengono? A volte è meglio non articolare, il mistero può essere anche motivante, e dà grossa dipendenza.

Sono d’accordo con Massimo e Stefano (entrambi miei amici): mi considero decisamente al servizio della musica, non di me stesso. Non voglio essere teatrale, ma la musica mi ha procurato una vita, e questo è un dono che arriva assieme a delle responsabilità. Cecil Taylor una volta ha detto “everything you do affects your playing”, e mi sono accorto sul serio che è vero. Per esempio non posso fare lavori commerciali oppure suonare in sessioni per cose in cui non credo. Incide in modo insidioso sul mio lavoro personale e sul mio pensiero. Credo nel poter sopravvivere grazie al mio mestiere e nell’essere intelligente nel business, ma per ottenere questo non credo di dover contribuire a pratiche musicali povere.

Abbiamo parlato dell’essere al servizio della Musica; hai anche citato Cecil Taylor e hai parlato del tuo bisogno di essere un artista indipendente: tutti questi discorsi mi fanno pensare a “Blood Stretched Out”. Ti ho visto suonarlo dal vivo nel 2017 (a Gradisca, in provincia di Gorizia): in alcuni momenti l’intensità fisica della tua performance mi ha fatto pensare a band hardcore e metal; in altri il piano era così veloce e ipnotico che ho cominciato a percepirlo come una specie di texture, e questo mi capita anche quando ascolto i riff in tremolo del black metal. Ovviamente non avrai iniziato a comporre  “Blood Stretched Out” pensando ai Mayhem o agli Emperor… Perché hai deciso di scrivere il tuo primo album per solo piano in dieci anni? 

Di sicuro metal e hardcore mi incuriosiscono, nonostante non possa assolutamente affermare di conoscerli allo stesso livello del vero fan. Certo lavorare con O’Malley e Patton mi ha aperto la visuale su modi di pensare coi quali diversamente non mi sarei mai confrontato, il che, credo, è lo scopo di collaborare con chiunque. In ogni caso la maggiore influenza su di me in questo campo è Max (Kohane, il batterista grindcore che con lui forma i PIVIXKI, ndr). Mi ha insegnato tantissimo sul grindcore (e a dir la verità anche un sacco sul beat-making). Grazie a PIVIXKI ho imparato a suonare davvero veloce, perché, beh, dovevo stare dietro al miglior batterista grindcore di Melbourne.

Qualche anno dopo che PIVIXKI è andato in pausa, nel 2014 Lampo di Chicago (sono degli organizzatori di eventi di musica “sperimentale”, ndr) mi a chiamato per presentare una nuova composizione per solo piano. Mentre mi preparavo per quello show, mi sono imbattuto in questa tecnica secondo la quale se suonavo veloce una nota, con un certo tocco, dentro il piano e la stanza tutta questa magica roba sovratono/psicoacustica prendeva vita, specie se modulavo la velocità del tremolo. Dopodiché il piano smette di suonare come un piano, il che è molto interessante per me. Ho lavorato con quest’idea in molti modi, ed è diventata “Blood Stretched Out”. 

“Blood Stretched Out” per me è stato davvero un momento importante. Ho realizzato che la musica non dev’essere un costrutto intellettuale. Può aver a che fare con la fisicità, essere un’esperienza e un divertimento, ed essere interessante dal punto di vista armonico senza essere dissonante immotivatamente o appoggiandosi a dei cliché, Trattandosi di pianoforte, cioè da dove ho iniziato, era importante per me che tutto fosse giusto, così ho lavorato duramente su questo pezzo per anni prima di registrarlo, suonandolo molto dal vivo in giro per l’Europa e l’Australia, raffinando nel corso della performance la struttura e il contenuto in generale. Dopo tre anni, ho davvero speso molto denaro cercando di ottenere una buona registrazione in studio. Ho realizzato che doveva essere live e per fortuna, quando l’ho suonato a Ginevra, ho sentito che avevo ottenuto qualcosa di buono e una buona registrazione.

Sono d’accordo con te. Estremo spesso vuol dire esplorativo. Il grindcore è speciale, perché apre tante porte: probabilmente ha partorito tutto il metal estremo in giro. Hai anche suonato con chi si trova al lato opposto del metal estremo (ma è davvero all’opposto?): Stephen O’Malley, maestro nella lentezza. Lo conosciamo molto bene. Hai parlato di fisicità e di ricerca di specifici registri, e lui possiede entrambe le cose. Che altro ti ha convinto a lavorare con lui e a rimaneggiare la vostra performance a Instants Chavirés in quel modo onirico (che Dio benedica le bobine)? 

Stephen in qualche modo era sempre in giro mentre io crescevo musicalmente (i 2000). Passava spesso in Australia in quel periodo per via dei suoi progetti con Oren Ambarchi, e ho visto molti suoi concerti a Melbourne coi Sunn O))), con KTL e alcune cose speciali, one-off. La sua partner Gisèle Vienne, una coreografa incredibile, è una mia vecchissima amica, ha supportato il mio lavoro molto presto ed è stata sempre un’ospite generosa a Parigi, quand’andavo lì. Dunque io e Stephen avevamo amici e interessi comuni, per questo è tutto successo con naturalezza.

La nostra idea originaria era quella di fare un concerto insieme utilizzando l’enorme organo a canne del municipio di Melbourne (il più grande organo dell’emisfero australe, che arriva fino a 20 metri!), ma non se n’è fatto nulla. In quello stesso anno, mi sono trovato con una manciata di concerti da fare in Europa e ho invitato Stephen per una piccola, tranquilla performance a Instants Chavirés. È stato molto speciale, strano, ma non abbiamo ottenuto una registrazione pulita, perché gli amplificatori di Stephen erano molto vicini al mio piano. Non abbiamo mai suonato di nuovo, ma quella registrazione mi è stata lì intorno per anni, e da qualche parte nella mia testa c’era sempre l’idea di farne qualcosa, perché la sentivo unica, in qualche modo.

Vivevo a Sydney nel 2016, e non volevo davvero stare lì, così sentii il bisogno di trovare qualcosa da fare. Un giorno ho preso le registrazioni e attraverso il mio Revox ho iniziato a creare musica concreta da esse. Questo procedimento ha dato risultati che mi hanno spinto personalmente in territori nei quali di solito non mi addentro. Ho proseguito, lavorandoci su per qualcosa come due mesi, sistemandolo in post-produzione, e alla fine era qualcosa. L’ho mandato a Stephen e gli è piaciuto sul serio, così l’abbiamo pubblicato.

Come molte persone hanno evidenziato, non è ciò che ti aspetteresti da me o da lui, ed è quello che lo rende interessante e in qualche modo un successo. È sempre un successo quando puoi fuggire da te stesso. 

Hai menzionato il Revox. Lo troviamo anche in “Immediata”. Soprattutto lo troviamo in Good Times In The End Times degli Astral Colonels, cioè Anthony Pateras e Valerio Tricoli, un disco incredibile e forse sottovalutato/trascurato, davvero ultraterreno. Abbiamo scritto un articolo sui lavori di Valerio e lo abbiamo intervistato. Penso che sia un buon pezzo, ma non sono soddisfatto della sua risposta sul Revox (forse non voleva rivelarci i suoi segreti). Perché ti interessa questo strumento analogico? A sentire i vostri dischi sembra un fabbricatore di fantasmi…

Tutto quello che posso dire è che il Revox consente un approccio molto tattile alla manipolazione del suono e alla composizione istantanea, ed è anche un grande antidoto alla maggioranza di mal progettati strumenti per processare il suono che le grandi aziende di tecnologia cercano di vendere a noi musicisti. È anche molto flessibile e ultraterreno, come dici tu, con un sound molto distinguibile, unico.

Penso che mi piaccia non stare troppo tempo davanti al computer quando creo, questo è il perché preferisco sintetizzatori analogici, il Revox, il piano e altri strumenti a tastiera come gli organi a canne. Non mi piace sentire il sound del software. Preferisco lavorare con la realtà acustica anziché con la sua simulazione, e il Revox mi offre questo. Penso che quando l’interfaccia detta la composizione (vedi cose come Ableton), anziché l’opposto, allora hai un problema. Anche se si sente il “tono” del Revox, questo ha versatilità infinita pur avendo una struttura molto semplice. È una macchina molto generosa in questo senso.

Valerio e io siamo molto in debito con Jérôme Noetinger (Cellule d’Intervention Metamkine) riguardo la scoperta delle capacità strumentali del Revox in sede live, oltre che per il fatto che lui è stato pioniere di un modo molto sofisticato per fare musica concreta dal vivo. Ci sono molte persone che usano il Revox adesso per via di Jérôme, ma lui è veramente un virtuoso, il Paganini delle bobine! Come ogni grande strumentista, lui ha fatto pratica per anni. Penso sia una cosa che molta gente non capisce della musica elettronica in generale: richiede pratica, pazienza e molto ascolto disciplinato. Soprattutto richiede tempo.

Noetinger - Pateras
Jérôme Noetinger ed Anthony Pateras, foto © Afarina

Grazie per questa risposta. Preferisco parlare del tuo lavoro come musicista e compositore, come stiamo facendo, però adesso mi hai incuriosito con le tue considerazioni su Ableton e i software. Oggi molte persone fanno musica così, dal ragazzino in camera sua al Grande Nome che suona a tutti i festival di elettronica. Ovviamente non penso che tu sia un luddista o un conservatore, ma sembra che tu veda pro e contro nell’uso del software. Forse il rischio è quello di suonare tutti uguale? 

Parlando in generale, devi ricordarti che tutta questa roba è progettata da aziende. Le aziende sono lì per rendere le cose facili, ma la musica non lo è, e le loro motivazioni non sono guidate dalla creatività, bensì dal profitto. Dunque, quando ti muovi in ambienti creativi prefabbricati, il contesto è quello appena descritto, e questo può influenzare le tue decisioni sin dall’inizio. Se non sei conscio di tutto questo, la cosa diventa un problema, perché la tua prospettiva musicale può esserne plasmata. In più non penso che esca musica buona dal comprarsi roba nuova tutto il tempo. Penso sia più importante diventare molto bravo con ciò che hai, poi cercare ciò di cui hai bisogno in quanto risulta da dove il tuo lavoro sta andando. L’industria mette tutto questo nella direzione opposta, quella sbagliata.

Comunque sì, non sono luddista, perché sono sicuro che da qualche parte ci sia della musica fantastica realizzata con alcune di queste cose. Per esempio sono certo che molto grande hip hop e footwork siano ottenuti con software per fare sequencing e campionamenti (come sempre, oggi la musica afro-americana rimane anni luce più avanti). Di sicuro accade anche nella dance, sperimentale, elettronica o left-field, ma si diventa pigri molto velocemente e i cliché finiscono per guidare le decisioni. Di solito mi arrabbiavo per questo, ma adesso semplicemente lo ignoro e cerco di concentrami sul mio lavoro.

Sì, questo mi ricorda i primi dieci anni del Duemila, specialmente il cosiddetto post-metal. Tante giovani band erano ossessionate dall’equipaggiamento (pedali, effetti, ampli). Volevano assolutamente sapere quali erano i singoli aggeggi utilizzati dai gruppi “affermati” della loro scena, credendo che esistesse un pedale segreto che trasformava gli asini in artisti. Poi magari invece arriva uno come Bill Orcutt, senza scarpe e con una chitarra acustica rotta, e caga in testa a tutti loro… Hai esplorato il suono di tanti strumenti diversi: piano, organo, archi, percussioni, elettronica. Non conosco tanti capaci di questo. Su cosa ti stai focalizzando ora?

Sto producendo, registrando e mixando. Cerco di conservare autonomia su tutti gli aspetti del processo creativo, il che richiede tutto un altro tipo di abilità ed essenzialmente è come imparare a suonare un altro strumento. Gestendo Immediata, ho trovato molto soddisfacente supervisionare le cose dall’inizio alla fine. Penso anche che sia importante provare a creare un discorso intorno a questa musica che non sia compromesso dalla moda o dai trend del mercato. Questo è il motivo per il quale nei booklet di Immediata ci sono le mie interviste agli artisti, qualcosa che continuerò a fare anche con Off Compass.

Off Compass, che manderò avanti assieme a Erkki Veltheim, pubblicherà musica di altre persone, non solo la mia. C’è un sacco di grande musica realizzata in Australia, nello specifico adesso a Melbourne. Melbourne è sempre stata una città con molta musica, ma molto poco è avvenuto in termini di riconoscimento internazionale. A Melbourne, grazie alle Inland Concert Series e al Make It Up Club, linguaggi musicali molto personali e unici sono in corso di sviluppo.

Aggiungo che, dopo aver vissuto sei anni in Europa, mi sono reso conto che la cosa interessante in Australia è che tra le diverse comunità c’è più impollinazione incrociata. Gente che suona musica classica può davvero improvvisare, alcuni improvvisatori sono molto competenti con la materia elettroacustica, i musicisti elettronici non hanno strane difficoltà a lavorare con strumentisti, e così via. In Francia, ad esempio, questa situazione è molto rara. A Berlino, dove ho vissuto, qualcuno ci prova, ma penso che la città sia troppo soffocata dalla sua importanza culturale (come Parigi o Londra). L’Australia non sente il peso di una storia culturale; siamo il bastardo dell’Europa e degli Stati Uniti e possiamo giocare liberamente con il meglio di quelle culture. A causa della nostra giovinezza e della geografia, stiamo costantemente creando un’identità artistica e così non possiamo permetterci la compiacenza delle nostre controparti europee.

Così mi fai un assist. Hai pubblicato due dischi con Erkki Veltheim. Tu e Veltheim siete anche i North Of North (con Scott Tinkler). E lui ha partecipato anche a Tētēma. I vostri due album assieme mi sembrano il tentativo di creare un suono nuovo fondendo i vostri strumenti (organo a canne e violino elettrico, piano e violino in un altro). Trovo anche somiglianze con “Blood Stretched Out”, perché c’è una metamorfosi durante quei pezzi. Come hai incontrato Veltheim? Perché questa collaborazione stretta?

Ci siamo conosciuti a Melbourne, penso a un concerto, intorno al 2000. Abbiamo inizialmente lavorato insieme su un corto di Eron Sheean per cui ho fatto la musica, s’intitola BING. Gestivo anche una serie di concerti all’epoca, si chiamava Articulating Space (2000-2006) e lui ci ha suonato molto. Poi abbiamo avuto insieme un ensemble con amici, chiamato Twitch, che era un ibrido davvero strano tra musica contemporanea e teatro assurdi sta che è stato seriamente una delle cose migliori nelle quali sono mai stato coinvolto.

Dopodiché lui ha suonato molta mia musica, pezzi da camera, colonne sonore, e sono stato fortunato ad averlo a disposizione per tutto questo. Mi ha insegnato molto di ciò che so sullo scrivere per archi, ad esempio. Curiosamente, quando abbiamo provato per la prima volta a realizzare della nostra musica in duo, non ha funzionato! Molto strano. È stata molto dura trovare qualcosa che andasse bene. Ci ha messo a confronto con un problema molto interessante, che è: cosa puoi fare con la tecnica strumentale classica per suonare come te stesso? Non in riferimento al cosiddetto “canone” o a qualunque forma di improvvisazione libera che c’è stata prima, ma davvero trovando qualcosa che funzioni per te. E siccome siamo passati attraverso questo insieme, credo siamo stati in grado di adattare questa domanda a molti contesti diversi: Tētēma, North Of North, il nostro duo e il nostro progetto Another Other con Natasha Anderson e Sabina Maselli. 

Quello che devi sapere di Erkki è che lui è un tecnico fantastico. Molti dei musicisti che rispetto capiscono il suono a una specie di livello profondo, ma Erkki sa davvero come funzionano le cose in generale riguardo a ritmo, timbro, frequenza e dinamiche. Non conosco nessuno con lo stesso tipo di versatilità creativa: è un passepartout umano. Se tu stai un po’ di tempo con qualcuno così, probabilmente impari qualcosa, e io cerco di tenermi accanto gente che mi possa insegnare qualcosa, perché mi sento sempre quasi un principiante.

Sarai in Italia a settembre-ottobre. Suonerai con eRikm a Firenze, da solo a Bologna e anche dove vivo io, in Friuli Venezia Giulia (precisamente: San Pietro al Natisone). Dato che sei molto eclettico, cosa dobbiamo aspettarci?

Il duo con eRikm è una forma molto evocativa e fisica di musica concreta live, usando hardware e non software. Abbiamo fatto un tour all’inizio di quest’anno e sviluppato una forte interazione, che parte da materiale pre-stabilito che può essere riconfigurato in varie mutazine live. Stiamo lavorando su nuovi suoni per lo show a Firenze, che per un po’ sarà il nostro ultimo insieme.

Per Free Music Impulse ci sara la premier del mio nuovo set elettronico solista. Sto cercando di sviluppare qualcosa che io possa fare in solitaria ma che non si fermi a dove io ho iniziato come musicista. Per combattere questo voglio trovare un nuovo modo di suonare in solo e il concerto a San Pietro al Natisone sarà un primo tentativo in questa direzione.

Il concerto a Bologna è per Hypnomachia, un evento che dura tutta la notte al Raum. Penso di fare una combinazione di ciò che performerò a Free Music Impulse più sezioni estese di roba psicoacustica. È una grossa sfida, ma sarà il mio ultimo show in Europa per almeno otto mesi, quindi è un buon modo per concludere.