Angelica Festival: Rhys Chatham (10/5/2014)

Rhys Chatham - foto di Giuseppe De Mattia

Bologna, Teatro San Leonardo. La foto di Rhys Chatham è di Giuseppe De Mattia, che ringraziamo.

Questo sabato è dedicato alla storia della musica, in particolare quella del minimalismo, genere di cui Bologna, nell’ultimo anno, ha già visto passare molti dei principali esponenti: Terry Riley (alla scorsa edizione di Angelica), Tony Conrad, La Monte Young, Glenn Branca e a pochi chilometri Charlemagne Palestine. L’altro grande portavoce di questa corrente avanguardista è Rhys Chatham, che ha collaborato con ognuno dei musicisti appena citati. Proprio come se fosse un incontro per ricordare le tappe che hanno reso celebre il movimento, oggi Chatham ci presenta tre suoi progetti-punti chiave dell’evoluzione della musica minimalista.

Le collaborazioni sono nate nella New York degli anni Settanta, un paesaggio con più di qualche stimolo, proveniente soprattutto dal Theatre Of Eternal Music e dal Dream Syndicate, che ha aiutato Chathama pensare “Le Possédé”, un brano solista della durata di venti minuti, rappresentativo del suo primo periodo minimalista, un riassunto delle varie influenze concentrate nell’utilizzo di flauti traversi. L’artista si presenta in modo simpatico e scherzoso e lui stesso ci espone in breve ciò a cui andremo incontro. Il concetto in questo primo concerto è la generazione di frequenze così alte ed indistinguibili che solo dopo venti minuti si riescono a scorgere tramite l’udito i primi accenni di esecuzione. Chatham mette in loop diversi tipi di note create con un flauto basso e un altro traverso, e illude invece il pubblico di ascoltare sempre le stesse note. Noi vediamo l’utilizzo degli strumenti, ma le variazioni sui loop già generati non sono immediate, bensì portano pian piano delle micro-aggiunte a un suono così disteso da sembrare eterno.

Per fare un salto temporale dalle prime composizioni agli ultimi progetti, Chatham decide di portare al Teatro San Leonardo la sua ultima band, The Sacrebleu. Insieme a Francis Pierot e Fabien Tharaud, fonde jazz rock e tecniche estensive ereditate dalla scena newyorkese. Il risultato, però, è un po’ debole: si perde quel senso di ripetitività fondamentale nella musica di Chatham e i vari apporti di basso e batteria non convincono. La chitarra è ben utilizzata, riconduce in pieno alla concezione quasi psichedelica del minimalismo, ma quest’ultimo viene distrutto da una componente d’insieme troppo poco sofisticata, che ne fa perdere il gusto.

Il progetto più famoso del musicista americano è il “Guitar Trio”, un unico pezzo in origine da basso e batteria (come nello storico live al CBGB con Glenn Branca) e soprattutto tre chitarre (oggi sei). La versione originale vede chitarristi diversi produrre sovratoni diversi suonando la tastiera del loro strumento, il che produce quel caos armonico unico nel suo genere, mentre il percussionista batte solo sul charleston, mantenendo il tempo costante e invariato. Tutti i chitarristi qui presenti fanno parte del Conservatorio di Musica “Giovan Battista Martini” di Bologna, scelta un po’ azzardata, vista l’attitudine con la quale si era fondato il Guitar Trio. La struttura non ha bisogno di prendere forma, ce l’ha già in partenza: veloci, graffianti plettrate sulla tastiera danno l’idea illusoria di un crescendo continuo. Eppure non tutto va come sperato, almeno da me. Innanzitutto dalla serata ci si aspettava una sfida alle orecchie, ma i volumi sono bassi, non riescono nemmeno a sfiorare quella fisicità che dovrebbero possedere. In secondo luogo le chitarre non sono ben mixate. Si sente solo Chatham e il resto dell’orchestra passa in secondo piano, e non sembra cercare di uscirne: composti e pacati come non credo i loro predecessori fossero nel ’77. Quindi l’insieme risulta un po’ sotto tono. Nella seconda esecuzione, poi, la batteria si slega dal suo vincolo del charleston ed entra nel mondo del rock, il che distrugge qualsiasi parvenza di interesse minimalista. La sincronia con Chatham ne risente e fa andare fuori tempo i due, rompendo quella duttilità infinita creata fin’ora. Il risultato è un non ben chiaro insieme di tecniche mischiate male, accompagnate dal film di Robert Longo “Pictures For Music” del 1979: una serie di fotografie in sequenza sfumata.

Un po’ sfortunato questo sabato sera che brulicava di promesse, ma nemmeno del tutto da buttare. Di sicuro abbiamo incontrato una tipologia di musica non semplice da rendere dal vivo.