Andare in cascetta

Andare in cascetta

“Andare in cascetta” (“incazzarsi” in pescarese) è un libro che parla di cassette e di vita. I nastri (le tape, come scrive qualcuno) sono tornati di gran moda in questi anni, anche se in apparenza obsoleti come una carrozza a cavalli o un floppy disk. Probabilmente il vantaggio che questo supporto ha rispetto al resto è quello di essere (stato) anche un oggetto “culturalizzato” e caricato di affetto negli anni Ottanta e Novanta. Riesumarlo significa lasciar esalare anche un botto di significati, senza dimenticare che per qualcuno rappresenta pur sempre una sorgente sonora, d’ispirazione o addirittura il core business (le neonate tape label). Sfogliando queste pagine, inoltre, ho pensato all’approccio differente di Claudio Rocchetti in “The Fall Of Chrome”, gigantesca raccolta di riflessioni di sound artist su questo ibrido tra banco di memoria e strumento. Anche questa ‘zine, tra l’altro, nel suo piccolo s’incazza e ha (ha avuto) due rubriche sulle cassette,  e di successo, sempre relativamente al numero di persone che ci leggono di media: Hot Wheels e Homekilling is taping music. C’è un’altra moda, o tendenza, che riguarda chi scrive di musica, che è quella di allontanarsi progressivamente dall’analisi del disco per farsi autore a tutto tondo (Blow Up aveva un’appendice in cui si recensivano album mai esistiti, e questo in qualche modo c’entra). Tendenza molto spesso deleteria, ma è una questione piuttosto soggettiva. “Andare in cascetta” è la combinazione di queste due spinte appena descritte, con leggera prevalenza, questo è chiaro, della seconda. “La cassetta è una scusa”, dicono addirittura gli ideatori, ma è un’esagerazione.

Leviamoci subito il dente: il libro va comprato da chi si ascolta tonnellate di musica, poi magari non gli salverà la vita, però lo farà sentire a casa. La copertina è ottima e lo lascia subito percepire come prodotto underground e DIY, l’impaginazione è semplice, troviamo i racconti e le brevi biografie dei loro autori. Si vede che c’è stato un lavoro di redazione abbastanza preciso, difatti si contano due-tre errori nei testi, evitabili quanto si vuole, ma non invalidanti.
Nessuno su questo sito è un critico musicale, figurarsi letterario, ma ci è stato chiesto di parlare di “Andare in cascetta” e ho provato a capire dove l’oggetto qui protagonista-pretesto m’insegnasse/ricordasse qualcosa su di un’epoca che ho vissuto anche in prima persona,magari divertendomi.

Comincio con i pezzi forti, quindi con “Punk agricoli” di Maximiliano Bianchi (uno dei due curatori, è grafico e content editor, su carta e su web), col quale si mostra come la cassetta possa essere un documento storico che testimonia una fase di passaggio in uno specifico contesto geografico, culturale e sociale, lato A rivolto verso il futuro prossimo, lato B che trattiene il passato recente. C’è poi “Quel bastardo di Mike Patton” di Carlo Cannella (figura chiave del punk marchigiano, qui lo conosciamo molto bene anche in veste di scrittore, per via del suo “La città è quieta… ombre parlano”) che mette in evidenza la preziosa viralità della cassetta in un’epoca senza mp3 e prende per il culo i Faith No More con un linguaggio a metà tra l’essenzialità punk ed Edgar Allan Poe. La compilation di cui parla non è inventata, cercate qui. Sull’argomento rimane anche Simone Lucciola di Lamette con “Autoreverse”, nel quale passa senza soluzione di continuità dal ricordare il modo che aveva una scena per lasciare una traccia al ruolo che questi banchi di memoria ricoprivano per un ragazzino anche a livello privato e personale. Meraviglioso è “Me la fai una cassettina, dj” di Andrea Bentivoglio, che è appunto dj, pure da un sacco di tempo: anzitutto sovverte il maschilismo di questa raccolta, perché qui vince di brutto “una femmina”, per di più sul terreno musicale (erano i ragazzi a fare i dj e le cassette, questa è quasi storia sociale dell’hometaping), una cosa che nel resto di “Andare in cascetta” non è nemmeno immaginabile, non a caso l’operazione coinvolge tredici uomini e zero donne, trasformandosi nel consueto Gay Pride involontario dell’ambiente. Non rivelo la trama ideata da Bentivoglio, ma chi ha letto “American Psycho” di Bret Easton Ellis deve pensare alla tipa che entra nella casa perfettamente arredata del protagonista e gli dice che ha appeso un quadro al rovescio, sgamandolo alla grandissima. Di nastri, compilation e dell’altro sesso parla anche Gianni Miraglia, e si ride molto (interessanti anche le licenze che si prende dal punto di vista formale). Piacevole e leggero, e in un certo senso è di nuovo scontro maschi-femmine, Maurizio Blatto di Rumore, ma da chi ha scritto “L’ultimo disco dei Mohicani” non posso che aspettarmi grandi cose. Apprezzabile anche l’altro responsabile dell’antologia, Manuel Graziani (sempre Rumore), ma potrei essere influenzato dal mio attaccamento al volto incartapecorito sulla copertina di quel famoso greatest hits (più b-sides) che spunta durante la narrazione.

Ci sono anche episodi sorvolabili, come sempre: Gianni Solla, scrittore, voleva evidentemente parlare di tutt’altro, perché la cassetta qui è anche meno di una scusa, lo stesso problema – che va ad accatastarsi sugli altri – del barboncino funky di Ricky Russo, dj rock (rock tipo Alvin dei Chipmunks) della mia città, da poco emigrato a New York: sapete quando qualcuno si sta rendendo così imbarazzante che finite voi per provare disagio? Ecco. La sua è una storiella mezza in triestino, mezza in inglese, tipo Sordi ammeregano o Totò e Peppino divisi a Berlino, una cosa talmente vecchia che lascia pensare che tutti, lui in primis, siano coscienti della sua nullità, ma allora perché stamparla se è pure fuori contesto?

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