Ancient to the Future: intervista a Don Moye

Don Moye, foto di Tore Sætre
Don Moye, foto di Tore Sætre

Gli Art Ensemble Of Chicago sono stati senza alcun dubbio una delle esperienze più forti e significative di tutta la musica nera. Great Black Music, come l’hanno sempre definita loro. Dopo varie vicissitudini e la scomparsa di Lester Bowie, Malachi Favors e Joseph Jarman, il nucleo storico della band è raccolto oggi attorno alle figure di Roscoe Mitchell e Don Moye. Il batterista incontrò Roscoe e gli altri, che all’epoca erano un quartetto privo di percussioni, in Europa, a Parigi, dove registrarono dischi fondamentali tra cui Les Stances A Sophie con Fontella Bass, con quella “Théme De Yo Yo” che è stata ripresa anche dai Motorpsycho (nel bellissimo ep della serie 2In the Fishtank” della Konkurrent, assieme alla sezione fiati di Jaga Jazzist) e dagli Zu assieme a Spaceways Inc (Nate McBride al basso, Hamid Drake alla batteria e Ken Vandermark ai fiati) nell’album Radiale del 2004.

A cinquant’anni dall’esordio discografico, la band è ancora tra noi e taglia questo traguardo con sotto braccio un doppio celebrativo in studio e dal vivo: We Are On the Edge (A 50th Anniversary Celebration), pubblicato dalla Pi Recordings. Ne abbiamo approfittato per una conversazione telefonica con  il batterista, Don Moye, che abbiamo raggiunto a Marsiglia, dove vive. Gioviale e assolutamente contento di raccontare e di raccontarsi, Moye, come già mi era accaduto con altre personalità carismatiche del jazz (David Murray, sempre Hamid Drake, Amiri Baraka, William Parker) si è rivelato assolutamente disponibile e down to earth. Zero pose, una risata contagiosa, un approccio istantaneamente amichevole e fraterno. Lo sostengo da tempo: quanto dovrebbero imparare certi musicisti dell’underground da questi artisti che hanno fatto la storia ma restano profondamente umani e lontani anni luce da qualsiasi atteggiamento divistico. Ecco cosa ci siamo detti.

Come si è approcciato alla musica suonata?

Don Moye: Ho  cominciato studiando il violino da bambino, poi mi sono avvicinato alle percussioni, iniziando a suonare nelle fanfare, i famosi bugle & drums. Da allora non ho mai smesso di studiare!

Quali sono le origini del suo interesse per i ritmi caraibici?

La mia connessione con questi ritmi è nata attraverso i ragazzi di Portorico (la patria della salsa!) del mio quartiere, a Rochester, nello stato di New York (Moye ha poi suonato con  il sassofonista Hamiet Bluiett, figlio di immigrati portoricani, ndr).

Cosa trova interessante nelle percussioni e come mai definisce il suo batterismo “Sun Percussion”?

Le percussioni, il mio modo di suonarle e il mio set, hanno a che fare con il feeling, i colori, la vita. Il sole infatti ci regala la vita, e senza di esso non c’è niente: sono molto interessato alla dimensione acustica del suono, che riflette questo approccio vitalistico. Non mi piacciono molto le batterie elettroniche, ho bisogno di sentire le bacchette, il tocco, il legno nelle mani, i suoni nudi e crudi. Non ho nulla contro la musica elettronica o elettrica, ho diversi amici che si cimentano con ottimi risultati in quei campi e so perfettamente che per fare buone composizioni elettroniche è necessario un percorso di studi lungo, denso ed articolato; semplicemente il mio gusto è  più orientato verso altre sonorità.

Parliamo dell’ultimo disco di Art Ensemble Of Chicago. Ci può descrivere l’assetto della band coinvolta nelle registrazioni?

I musicisti coinvolti nel disco sono da un lato quelli che hanno suonato con noi negli ultimi tempi (Junius Paul, Hugh Ragin, Dudù Kouaté), poi alcune vecchie conoscenze come Jaribu Shahid e Nicole Mitchell, oltre all’italiana Silvia Bolognesi. Poi ci sono le voci di Moor Mother, Christina Wheeler e Rodolfo Cordova-Lebron, una nutrita sezione di percussioni (oltre a Kouaté, che era con Art Ensemble Of Chicago anche dal vivo a Reggio Emilia due anni fa,  Enoch Williamson e Tito Sompa, ndr), un trio di archi (Tomeika Reid, che ha una lunga frequentazione con Roscoe Mitchell, ma ha inciso tra i tanti anche con i nostri Luz, al cui violoncello si sono aggiunti  la viola di Edward Yoon Kwon e il violino di Jean Cook, ndr), Fred Berry (tromba e cornetta) e Stephen Rush a dirigere tutta la formazione, che per la prima volta per noi è così numerosa.

Se dovesse scegliere solo tre dischi del suo lungo viaggio con Art Ensemble, quali sarebbero?

Il prossimo, perché  tre sono davvero troppo pochi: degli Art Ensemble direi Les Stances A Sophie con Fontella Bass (Nessa, 1970) e Reunion con il maliano Baba Sissoko, pubblicato dalle Edizioni De Il Manifesto nel 2002.

E invece nel resto della sua produzione?

Nel resto della mia produzione, Resolution con Hamiett Bluiett (Black Saint, 1978 – nel disco suonano anche Fred Hopkins, Jabali e Don Pullen), The Magic Triangle con Don Pullen e Joseph Jarman (Black Saint, 1979)  e il duo con Jarman Earth Passage-Density (Black Saint, 1981).

E se dovesse invece nominare cinque dischi fondamentali nella storia della musica?

Le Carnaval Des Animaux di Saint-Saëns, qualsiasi cosa di Billie Holiday, Live At Newport 1957 di Duke Ellington, Greatest Hits di James Brown e le registrazioni ambientali delle percussioni di Famoudou Konaté (maestro percussionista della Guinea-Conakry).