ANA KRAVANJA & SAMO KUTIN, Cumulus Spores

Inaspettato, e ancor di più benvenuto in questo periodo così avaro di belle notizie, arriva questo Cumulus Spores, disco di Ana Kravanja e Samo Kutin, che abbiamo imparato a conoscere con Širom, di cui su queste pagine abbiamo parlato a più riprese. Ghironda, tampura brač (banalizzando, una sorta di mandolino dell’Est), çifteli – un altro strumento a (due) corde, proveniente dall’Albania – e risuonatori acustici (ci piacerebbe saperne di più) gli strumenti usati da Samo, mentre Anja suona viola, violino e carillon. Entrambi usano (poco) la voce. Tocca ripetersi, ma ancora una volta il disco è magnifico: basti il pezzo d’apertura, “Dawning”, un vero e proprio inno alla nascita, perfetto in un periodo appestato da sentori di morte come quello che stiamo vivendo: un folk imprendibile eppure immediatamente familiare sviluppato come fosse un raga indiano, un unico piano sequenza luminoso e lirico che fiorisce attorno a figure melodiche nitide e semplici, che si evolvono poi in una preghiera pagana che ha davvero del miracoloso, fin quando, attorno al minuto sei, non ascoltiamo dei suoni  di corde che stridono che sembrano proprio quelli di creature che vengono alla luce. Uno stupore difficile da dire in parole, bisognerebbe solo ascoltare al massimo del volume e, perdonate la retorica, farlo sentire a qualcuno a cui volete bene: un pezzo che punta dritto al cielo e oltre, ed è balsamo purissimo per le nostre ferite. Dopo questi nove minuti abbondanti di limpida, rotonda, delicatissima ascesi, il disco, autoprodotto (lo potete trovare qui), si mantiene comunque su livelli ultraterreni e al tempo stesso profondamente impastati di fango, di resina degli alberi, di odori della natura, di bestie, di foglie, di flora, di fauna. Musica che sembra provenire da un evo premoderno in cui l’uomo era ancora solo un ospite rispettoso e osservante dei cicli della Madre. Ispirati e guidati da una connessione che ha del telepatico, i due imbastiscono con punteggiature sospese per aria preziosi fili di armonie ancestrali. Il folk come luogo dell’anima che incontra la  scientifica follia etnomusicologica di Harry Partch, l’estasi della ripetizione, un ritmo celeste e inesorabile come quello che ci portiamo tutti in petto (da notare che nel disco non ci sono percussioni), la stessa ispirazione che animava Iva Bittová  e Vladimir Vaclaveck in Bilé Inferno (un disco che chiunque abbia le orecchie collegate al cuore dovrebbe possedere e conoscere a memoria) e poi chissà cos’altro, come in un mandala costruito con devozione, cura, amore, un’attenzione che ha del religioso a ogni dettaglio (ogni composizione respira, come fosse un organismo), per poi essere soffiato via, appena è stato terminato. Per poi riprendere da capo.

Una  presentazione del disco è programmata per il 2 giugno presso il Klub Cankarjevega Doma di Ljubljana in Slovenia, probabilmente in streaming, stanti le condizioni attuali. La speranza è di poter ascoltare (relativamente) presto questi cinque miracoli dal vivo, magari in mezzo ad un bosco, dove sembrano essere nati.