AMENRA, De Doorn

Proprio mentre scrivo queste righe, gli Amenra annunciano una data a Bologna il 29 settembre presso il Link. Colin H. Van Eeckhout e compagni si presenteranno in veste unplugged, modalità di esibizione già sperimentata con successo in passato (vedi il meraviglioso Alive) e che senza dubbio risentirà meno delle restrizioni dovute al Covid. Come il pittore con i colori sulla tavolozza, la band fiamminga si serve dei vari generi musicali in funzione dell’impatto emotivo che l’opera dovrà trasmettere all’ascoltatore, mescolando metal, hardcore, ambient e parti acustiche.

È questo che li ha portati a essere una delle colonne portanti della scena post-metal, insieme alla cura maniacale del profilo estetico e alla teatralità nell’approccio live. Se a livello di sound non si sono mai allontanati granché da quanto mostrato nel seminale Mass III, il disco che li ha resi visibili a livello internazionale, gli Amenra hanno però concentrato gli sforzi sullo sviluppo dell’aspetto scenografico, al punto che i loro concerti hanno ormai assunto i contorni di una liturgia collettiva.

Un rituale esoterico è proprio ciò che servirebbe per esorcizzare i demoni del nostro tempo, e da questo punto di vista accolgo con piacere il ritorno degli Amenra sul suolo italico. Qualche perplessità invece la riservo al loro settimo capitolo, il primo a rompere la tradizione del termine massnel titolo. È l’indizio di un rinnovamento in atto? Può darsi, fatto sta che non c’è alcun “Mass VII” ad attenderci. C’è invece una corona di spine.

I nostri concerti sono in un certo qual modo spirituali, religiosi, se sei aperto a questa interpretazione c’è sicuramente un senso di necessità di comunione, di condivisione di uno spirito che leghi i presenti. Sul palco cerchiamo di consumare un rituale che ci unisca col pubblico, nel tentativo di costruire una comunità.

Dall’intervista a Colin H. Van Eeckhout

De Doorn (“la spina” in fiammingo e olandese) non rappresenta certo una svolta epocale nel percorso stilistico della band. I due singoli “De Evenmens” e “Voor Immer” ci avevano già anticipato la chiave di lettura dell’album, ossia un’alternanza piuttosto marcata tra le sacrali processioni sludge/doom che ben conosciamo e lunghi momenti di raccoglimento in chiave acustica o ambient. La novità più interessante, oltre ai testi tutti in lingua madre, è il frequente ricorso di Colin allo spoken word, quasi a voler rimarcare l’atmosfera messianica che permea tutta l’opera.

La lunghissima introduzione di “Ogentroost”, così come le rarefazioni in cui ogni ritmo e struttura sembrano destinati a collassare, creano un costante senso di attesa e indefinibile angoscia, evocando temi cari alla band come il concetto di perdita e il rapporto con la morte. A pensar male si fa peccato, ma, conoscendo gli Amenra, non mi stupirebbe se si trattasse anche di una scelta deliberata per frustrare la moderna tendenza di ascolti “usa e getta” su Spotify. Va però detto che questi bruschi cali di dinamica, sempre in agguato nell’evoluzione di ogni pezzo, alla lunga possono risultare esasperanti anche per il pubblico più affezionato.

Lungi da me confutare le opinioni ben più lusinghiere che altri hanno speso su De Doorn: appagano come sempre il maestoso incedere dei brani a trazione sludge/post-metal e le incursioni in territori più estremi di “Het Gloren”, né si può negare l’intensità delle parti acustiche impreziosite dall’impeccabile prova vocale di Colin. Nel complesso, permane l’impressione di un continuo saltare da un registro all’altro senza mai volere davvero giungere ad una soluzione: la band dispensa a piene mani atmosfere spettrali, cupi arpeggi e deflagrazioni metal, ma sembra rinunciare a sviluppare ogni idea, accontentandosi di posizionarle in fila ordinata e presentarle sotto la luce migliore.

De Doorn è la prima loro release con una grossa etichetta (per quanto indipendente) come Relapse Records, e questo potrebbe averli spinti a modificare drasticamente il processo creativo per soddisfare le nuove esigenze discografiche. Sarebbe ingeneroso attribuire alla nuova dimensione commerciale tutti i punti deboli che ravviso in questi cinque pezzi, ma trovo ancora più fastidiosa l’idea che, dopo ventidue anni di carriera e svariate pubblicazioni, l’aspetto istrionico abbia preso il sopravvento sul songwriting.

Sono considerazioni personali su un disco ambivalente, non così canonico da risultare superfluo, né rivoluzionario al punto da spiazzare i fan tradizionali. Troverà sicuramente il favore di parte della critica proprio perché tagliato su misura per un certo tipo di pubblico, ma per quanto mi riguarda in De Doorn ho trovato molte spine e poche rose.