ALEXANDER HAWKINS, Song Unconditional

In archivio conserviamo una bellissima intervista del 2021 con Alexander Hawkins (Oxford, 1981), che invitiamo a rileggere. Questa intervista cattura perfettamente il punto di vista del musicista e il suo approccio al jazz contemporaneo e all’improvvisazione. Partendo da questo spunto, segnaliamo la sua ultima fatica da solista, Song Unconditional, pubblicata dall’etichetta svizzera Intakt.

Questo lavoro comprende 13 brani per 50 minuti di pianoforte purissimo, distillato dal talento di uno degli artisti e compositori più originali nell’ambito dell’avanguardia contemporanea. Registrato da Stefano Amerio presso gli Artesuono Recording Studio di Cavalicco, Friuli-Venezia Giulia, il disco si snoda attraverso composizioni dalla durata media di circa 4 o 5 minuti. Sono tredici imprevedibili microcosmi sonori che, per varietà ed eleganza, non lasciano spazio alla prevedibilità del già sentito, nonostante molti dischi di piano-solo hanno accompagnato, fino a un certo punto, i nostri ascolti in passato: dal Duca (Duke Ellington) al gigante Monk (Thelonious Monk) e a Bill Evans, da Paul Bley a Jarrett (Keith Jarrett) e poi, in tempi più recenti, Geri Allen, Matthew Shipp e Craig Taborn… Ebbene, finalmente, e complice sicuramente il concerto che abbiamo avuto occasione di ascoltare al Meakusma Festival 2024 (la dimensione live in questi casi è fondamentale per comprendere l’outsider, il geniaccio), del quale abbiamo reso ampiamente conto, le scintille scoccate dalle dita di Hawkins sulla tastiera di un meraviglioso pianoforte Fazioli (come ci ha rivelato Alexander, ndr) hanno riacceso in noi una passione che sembrava sopita. Ascoltare per credere brani come “Song Of Work Still To Do”, “Satin Antiphonal”, “Crinkle Crinkle” o “Song Of A Quiet Ecstatic”, con melodie che si schiudono in uno scintillio di note – note come gocce di pioggia in un temporale estivo (“Polyphonic Song”) – e melodie trasparenti a cui è impossibile resistere.

La tecnica sopraffina di Alexander Hawkins è palese, ma altrettanto evidente è la sua capacità di tralasciarla, di celarla intelligentemente per far emergere l’intenzione di un approccio altamente poetico, godibile sempre, evitando le facili banalità estetiche intrinseche al pericoloso format del solo-piano. Leggo sulla pagina Wikipedia di Alexander che Art Tatum è “his main idol”, e tutto si spiega. Ma, se non si fosse capito, lui è assolutamente da non perdere in concerto, sia in solitario che in ensemble, affiliato, per esempio, a gente del calibro di Mulatu Astatke. Capito il tipo?

P.S.: A fine luglio sono annunciate due date in Puglia in coppia con il sassofonista barese Roberto Ottaviano.