Alessandro Ragazzo: andare nell’oltre paesaggio

Mestrino, classe 1980, con Cinque Studi Sul Paesaggio ha inaugurato il catalogo della Dissipatio di Nicola Quiriconi dei VipCancro. Un disco che si abbevera alle fonti del field recording non inventa certo un linguaggio nuovo, ma si fa attraversare con piacevole smarrimento come fosse appunto una raccolta di fotografie su pellicola nelle quali la macchina scatta senza una intenzione, e le impressioni che emergono nella camera oscura sono frutto di un lavoro di sottrazione, di sparizione della volontà di narrare qualcosa e dell’autore stesso. Di questo e di abbiamo parlato con Alessandro. 

Mi racconti il tuo primo ricordo legato alla musica?

Alessandro Ragazzo: Non esiste un vero e proprio ricordo, parlerei più una somma di sensazioni; se vogliamo andare nello specifico, la musica (rumore) potrebbe sorgere quando si abbandona l’idea di immortalità adolescenziale e si affronta poco alla volta il mutamento e deterioramento del oggetto-corpo, in quanto noi siamo un corpo e non abbiamo un corpo. Una sensazione interiore. Va oltre l’ascoltare musica. Ecco, questo potrebbe essere un ricordo non strettamente legato al concetto di ascolto ma come un insieme fisico/struttura, uno strumento in perenne registrazione.

Il tuo disco mi ha fatto pensare a Basinski, a certe cose della Touch Records, a Machinefabriek… Quali sono i tuoi punti di riferimento ed i tuoi ascolti, oggi? Mi dici cinque dischi importanti nel tuo percorso? 

Punti di riferimento non ci sono, ma posso strizzare l’occhio a persone come Zapparoli, Rocchetti, Sigurtà; ho ancora in mente Balestrazzi e Quiriconi con l’album Licheni. Sono sempre più interessato alla persona fisica umana anziché ai suoi prodotti, poi del resto non vedo nessuno ed il resto vien da sé. L’autore è sempre una cosa staccata dall’opera.

Come ti sei avvicinato alla pratica del field recording, attraverso quali ascolti? E quali fonti hai utilizzato nel disco? Hai avuto una guida in questo percorso? Parli di primi esperimenti col nastro nel 1994. Raccontaci.

Ho capito che il field recording è un punto cardine della sperimentazione sonora ed ho cominciato a praticarlo quasi quotidianamente da ormai un bel po’ di anni, ma credo ci sia ancora molto da fare a livello concettuale: sento e vedo che viene utilizzato come pratica nel sociale, sempre con un messaggio, una narrazione, scadendo sempre o quasi nel simbolismo e nel significato (ricordando sempre che il significato è un sasso in bocca al significante).

Cerco di bloccare queste rappresentazioni, in me sicuramente, scoprendo che è necessario creare uno squilibrio tra soggetto e oggetto (paesaggio sonoro). Per andare “nell’oltre paesaggio”, nel suono, bisogna differire dal simbolismo smarginando anche nella pratica, fino a togliere la volontà, liberarsi dal linguaggio. Paradossalmente (ma neanche tanto) Romanticismo e filosofia come Kant, Schopenhauer e Nietzsche mi stanno aiutando ad educarmi. Nel 1994 con degli amici ci si trovava in una spettrale ed umida cantina per saldare nastri per creare musicassette di musica house di quegli anni; io non ascoltavo il genere ma ero interessato al processo, che risultava artigianale e convulso, visto che in quegli anni il digitale era solo alle porte e non ancora accessibile. Negli anni successivi quelle giornate mi servirono per approfondire la cosa.

Dalla cartella stampa: Abu-l-Hasan al-Nuri, santo primitivo Sufi, scrive: “non possiedono nulla e da nulla sono posseduti”. Esercizi di ascolto e di sparizione o di immersione nel suono come nei colori di un quadro di Rothko? Spiegare la musica, tanto più se di questo tipo, è un esercizio che lascia il tempo che trova. Ti chiederei piuttosto di raccontarcela: da dove sei partito, come hai lavorato, quali illuminazioni, quali deviazioni, ammesso che avessi una strada ben delineata che volevi percorrere. O è il suono che comanda e porta dove decide lui?

Torniamo a quello che scrivevo prima: Abu-l-Hasan al-Nuri ha centrato il punto, lo svuotamento del concetto di soggetto, il proprio “io”. Sto lavorando su testi di filosofia, trovando molti richiami anche alla teologia negativa; a pari passo lavoro costantemente sul corpo degli strumenti che utilizzo, soprattutto nastri, corde, filtri e memorie sonore. Ho intuito che solo nella fioca luce e non nella chiarezza si può non stare dove si stava, sparizione, quindi non esiste strada da voler percorrere perché già la volontà e deceduta. Anche dal vivo, secondo me il vero banco di prova, si deve frequentare l’abbandono, il suono deve fondersi con l’esecutore e viceversa; arrivati a quel momento alto dell’esecuzione (sempre soggettivo da parte dell’ascoltatore) sia il suono che l’esecutore non sono più, potremmo dire: questo è il miracolo, che penso sia una cosa riservata a pochi. Con l’illuminazione avrei poco a che fare; penso piuttosto al buio, al brancolare letteralmente nel buio: Cinque Studi Sul Paesaggio è un totale viaggiare sull’incomprensione, scivolando continuamente e creando continui buchi neri.

Se questo disco fosse un libro, sarebbe? Mi sembra di capire che sei un frequentatore della poesia.

Mi diverte pensare ad una fusione tra “Viaggio al termine della notte” di Céline ed il “Lenz” di Büchner.

Parlando con un’amica l’altro giorno dicevo che se dovessi scegliere tra il perdere l’udito e la vista sceglierei probabilmente la vista. Tu? Conosci “Nel paese del silenzio e dell’oscurità” di Herzog?

Forse rimane ancora il tatto come senso interessante da approfondire, Beethoven era già sordo a trent’anni, comunque penso che anche io sceglierei la vista; conosco ed apprezzo Herzog ma questo lavoro devo ancora visionarlo.

Cosa stai ascoltando in questi giorni e quali sono i suoni che colpiscono di più la tua attenzione?

Ascolto ciò che mi offre il caso; quando esco, adesso meno, porto sempre via il microfono: è molto più interessante registrare in una città senza aspettative o pretese come Marghera rispetto al mio decennale soggiorno in una città come Venezia; la socio-acustica è una materia interessante da approfondire.

Sei già al sesto disco, quindi non sei di primo pelo, diciamo. La tua esperienza nel mondo delle musiche altre, in Italia e fuori? Possibilità, limiti, contesti, risorse, scena, etichette?

Se fossero altre non si troverebbero nelle condizioni attuali, ho potuto vedere partitismi, sette, gruppi elitari del settore, truffe false o false truffe… dopo, se si ha la fortuna di trovarsi fuori da questi schemi, è tutto grasso che cola.  Non è facile trovare gente che ti capisca, non parlo del lavoro o prodotto sonoro ma di sintonia con la tua ricerca, sono alchimie strane, devo ancora individuarle, ma a volte capitano.

Il tuo rapporto con il silenzio, dentro e fuori  la musica.

Il silenzio è importantissimo, come ti dicevo prima è il cardine dell’ascolto: bisogna silenziarsi per ascoltare, per attivare quell’ascoltare di cui mi chiedevi prima. Il silenzio dà modo di interiorizzarsi nell’ascolto, ripeto: corpo come strumento. Tanti mistici anche nostrani lo capirono benissimo e questo vuoto/silenzio lo descrissero con le parole/ linguaggio e non con il sonoro, unico loro limite.

Dopo aver ascoltato un po’ di volte il disco – non durante – mi sono venute in mente delle sequenze di Stalker o di Solaris (la parte prima della partenza nello spazio) di Tarkovskij; ci sono registi che hanno nutrito il tuo immaginario rispetto al suono?

Sicuro, ma è sempre cinema, quindi bello che imbellettato per le sale ed il pubblico. Ho divorato pacchi di cinema, adesso non più, l’ultimo che devo menzionare dopo anni di vuoto è “The Lighthouse” di Robert Eggers, nutre sicuramente il mio immaginario; il cinema rimane però rappresentazione e non presentazione della vita.