ALESSANDRA NOVAGA, I Should Have Been A Gardener

Devo ammettere che non conoscevo il cinema di Derek Jarman, almeno fino a quando Alessandra Novaga non ha composto, portato in giro e poi pubblicato questo lavoro ispirato – vedremo in quale maniera – alla sua figura. Per farmi un’idea su di lui ho cominciato – forse sbagliando – dalla fine, guardando “Blue”: all’inizio pensavo che il mio televisore avesse qualche grosso problema, poi mettendo in pausa la riproduzione e facendo qualche ricerca su Google ho scoperto che il film, realizzato a pochi mesi dalla morte dell’autore (1994), consiste in un unico fotogramma blu (per la precisione International Klein Blue) durante il quale il regista, divenuto ormai cieco per le complicazioni derivanti dall’HIV, parla di sé, voce narrante accanto a quella di altri, fra cui quella dell’immensa Tilda Swinton, sua buona amica. Un testamento in forma di film, un film senza immagini ma con tanto suono: la colonna sonora è ad opera di Simon Fisher Turner, una sorta di regista musicale della pellicola, e include nomi come i Coil, John Balance e Peter Christopherson, e Brian Eno.

Il disco precedente di Alessandra era invece una rivisitazione delle musiche nelle pellicole di Fassbinder. Posso dire di conoscere da tempo quest’ultimo ma non mi ero mai soffermato troppo su Peer Raben, compositore che legò a doppio filo la propria carriera a quella del regista tedesco: anche in questo caso il lavoro della Novaga ha avuto per me una funzione epifanica. In tal senso la sua musica corrisponde appieno a quello che da sempre ricerco nella creazione artistica, e cioè l’aprire finestre su altre creazioni artistiche, su altre voci e altre storie, un’espansione della conoscenza che è quintessenziale del fare Cultura. A ciò va aggiunta una capacità di evocare immagini e scene propria di quella musica che al cinema si rifà ma poi prende a brillare di luce propria.

Se con Fassbinder Wunderkammer Alessandra rilegge la musica da film, con I Should Have Been A Gardener parte da un’esperienza personale, da una propria passione e inclinazione, per dare vita a un disco che, forse in maniera anche poco intenzionale, diventa molto cinematografico e si ricongiunge ai suoni di “Blue”. Lo spunto è stato la visita al Prospect Cottage, la casa nel Kent in cui Jarman visse i suoi ultimi giorni e dove aveva allestito un giardino molto particolare fatto di piante autoctone, ciottoli e materiale recuperato sulle vicine spiagge: presto il giardino era diventato una sorta di metafora, la lotta delle piante contro i venti sferzanti e le avverse condizioni atmosferiche era quella dell’uomo contro la malattia. Alessandra, oltre che appassionata di cinema è anche una patita di giardinaggio, per cui deve essere stato abbastanza naturale per lei ricavare musica da un’esperienza come questa.

L’album, uscito a luglio per Die Schachtel, si apre con il rumore dei passi di Alessandra sui ciottoli, uno scalpiccio che fa da sfondo all’intero brano, citazioni dello “Stabat Mater” di Vivaldi,  un alito di vento, un velo di feedback che avvolge quelle poche note rilasciate, ognuna di esse parte fondamentale di un tutto, come le umili piante del Prospect Cottage, ispide ortiche, acanto, elicriso, ognuna al suo posto, parte di un disegno più ampio. Qui risiede la bellezza della musica di Alessandra Novaga, ad ogni singola nota sembra essere riservato un trattamento speciale, ciascuna sembra essere il centro della composizione: una volta pensata. viene emessa, curata, lasciata espandersi più o meno nell’aria, sistemata vicino alle altre proprio come farebbe il più meticoloso fra i giardinieri. Con “The Wound Dresser” Alessandra destruttura un pezzo, molto caro a Jarman, scritto per orchestra da camera e baritono dal compositore contemporaneo John Adams. Alle atmosfere crepuscolari dei primi due brani fanno seguito “Poppies In The Morning”, armonici che si schiudono alle orecchie sotto un tenue sole, e “Father Forgive Me”, in cui Alessandra cita in maniera insospettabile i Pet Shop Boys di “It’s A Sin” (brano di cui Jarman girò il videoclip), trovando anche il tempo e il modo di scherzare con le corde in una traccia non scevra da tensioni. Chiude la title-track, in cui salta fuori la viva voce del regista, che intervistato parla appunto di questa sua passione per le piante e di quanto gli sarebbe piaciuto essere un giardiniere: tutto ciò mi ha ricordato un passo dell’intervista che tre anni fa mi concesse Alessandra, in cui mi raccontava delle sue passioni dicendo che nella vita avrebbe potuto fare benissimo altro e che il suo essere musicista risponde in fondo a una casualità, a una modalità espressiva che avrebbe potuto assumere altre forme. Cosa che, per nostra fortuna, non è accaduta.