AKI TAKASE, Hokusai

AKI TAKASE, Hokusai

“Questo è il mio paesaggio interiore. Hokusai ha mostrato così tante direzioni nella sua pittura ed è per questo che ho voluto convogliare in questo lavoro diversi colori dell’improvvisazione”: così Aki Takase nel libretto di questo Hokusai, un disco in piano solo, come sempre sulla zurighese Intakt. In copertina, un’immagine dalle famose 36 viste del Monte Fuji, che include “La Grande Onda” di Kanagawa, un dipinto del 1831, probabilmente tra i più copiati e riprodotti di ogni tempo. Di stanza a Berlino da oltre trent’anni, dopo aver passato diverso tempo a farsi le ossa nel jazz club del famoso scrittore Haruki Murakami, ha saputo progressivamente costruire un proprio linguaggio peculiare, tra rivisitazioni di giganti come Monk e Dolphy (in combutta col marito pianista Alexander Schlippenbach), alfabeti percussivi ed esplorazioni dentro allo strumento. Il sipario qui si apre sull’improvvisazione austera ed elegante di “Cranes”, ovverosia, come nei tardi lavori di Hokusai, uccelli raffigurati con il semplice, nudo movimento dei pennelli: minimalismo, movimenti imprendibili, attesa, meccanismi di volo (questo pezzo piacerebbe a Francesco Massaro). Quell’aria così affilata e rarefatta che spira da posti a metà strada tra la contemporanea e l’avant jazz, dove il discorso musicale attinge da entrambi i grandi fiumi per sfociare in un vasto mare indicibile. Si increspano le onde con “Hokusais Meer”, cocciuta e assorta nel cercare spigoli nel buio, con l’ombra di Cecil Taylor ad annuire sorniona sullo sfondo. Come diceva il grande Armando Trovajoli, il jazz, ci si nasce o no. Non si impara e non si insegna, è un linguaggio a parte. Tenendo presente, che poi dietro la porta c’è sempre Johann Sebastian Bach. Il jazz è soprattutto libertà. Ecco allora, in duetto col marito, “Bach Factory”, l’improvvisazione applicata alla prima parte del Clavicembalo ben temperato, cioè come trasportare nel Ventunesimo Secolo un’opera del 1722, tra abisso, ucronia e vertigine. Più conciliante e classicamente monkiana “Live In Dream”, ricorsiva e persa in un labirinto d’infanzia “Nihon Bridge In Edo”, dove fa capolino una celesta. Hokusai è stato il primo a sviluppare storie disegnate, ed è per questo considerato il precursore dei fumetti, degli anime e dei manga di oggi. I suoi libri illustrati a mano erano pensati con il preciso intento di rappresentare l’intima essenza dell’essere umano e volevano altresì fornire linee guida su come disegnare: nei centosessanta secondi di “Hokusai Manga” il tentativo, riuscito, è di dare voce ai demoni, mentre in “Sketch Of Spring” il mood si fa più giocoso, complice di nuovo la celesta, e il risultato non è imprescindibile. Quando si alza il vento che muove dalla cima severa del Fuji, le cose nuovamente si fanno più interessanti: “Studies Of Gesture”, la lingua delle mani, un vocabolario di intenzioni e di specchi che riflettono azioni che sono più rapide della lingua che vorrebbe dirle. “Cherry”, già suonata con David Murray, è lirica e caduca come la fioritura dei ciliegi, tipica delle terre del Sol Levante; una ballad delicata, effimera, un requiem alla bellezza che nasce e muore. Paesaggi interiori, si diceva in apertura: vasti e in punta di dita, ed ecco allora “Silent Landscape”, quasi Debussy che guarda il Mar del Giappone prima di virare verso più consuete spiagge jazz dove già tanti (troppi?) sono approdati. Lo stesso sapore di già sentito si avverte nell’incipit di “Dr. Beat”, energica e quasi cubana nella sua orgia di pulsazioni, per poi lasciare spazio ad acrobazie e capriole che ricordano Egberto Gismonti. Chiude “Hokahoka Hokusai”, in duo con la scrittrice Yoko Tawada, anche lei berlinese d’adozione: «Si dice che il corpo umano sia composto per l’ottanta per cento di acqua, per cui non c’è da meravigliarsi se ogni mattina allo specchio appare un viso diverso. La pelle della fronte e delle guance cambia continuamente, così come il fango di una palude a seconda del movimento dell’acqua, che vi scorre al di sotto, e del movimento delle persone che vi lasciano sopra le proprie impronte». Il jazz e i suoi dintorni sono  musica del divenire, sempre identica, sempre cangiante: proprio come lo specchio nel quale domattina ci rifletteremo trovandoci sempre uguali, sempre diversi. Aki Takase ha passato la boa dei settant’anni ma ha ancora l’entusiasmo di una ragazzina. Come da tradizione, Hokusai, avvertendo la morte avvicinarsi, compose questo haiku:

Anche se da fantasma
me ne andrò per diletto
sui prati d’estate.

Questo disco, al netto di qualche raro passaggio interlocutorio, riflette in modo limpido questa pura gioia del suonare della vulcanica pianista che sente una profonda connessione con il pittore. Il jazz, quando non si umilia ad essere banale musica da cocktail o polverosa riscrittura di standard, è musica profondamente, pienamente pittorica: cattura il movimento, l’inafferrabile. E noi ci affanniamo a descriverlo, ben sapendo che è un’impresa alla Don Chisciotte. C’è forse qualcosa di meglio?