AGENTS OF DECAY, Tele/Path

Era da qualche anno che Marco Acquaviva (lo si conosce meglio con gli alias UXO, HDADD o come fondatore e unica mente dietro la label Queenspectra) e Andrea Bracali (Colossius) non si facevano vivi, in termini discografici ovviamente. Entrambi avevano firmato i loro ultimi lavori nel 2018 e quattro anni sono un’eternità tanto nell’attuale mondo della musica, quanto e pure più per due artisti che da sempre hanno fatto anche della prolificità, a tratti insostenibile, una cifra stilistica.

I due, insieme a Cristiano Crisci (Digi G’Alessio prima e Clap! Clap! poi), sono stati per qualche anno i veri pionieri (e come tutti i pionieri: coraggiosi, ma anche sprovveduti, dannatamente impulsivi, spesso snobbati, ma sempre visionari) di tutta una certa elettronica made in Italy, quella più giocosa e sghemba, più colorata, gommosa e contaminata. Poi, mentre alcuni loro colleghi – non meno talentuosi ma indubbiamente più commerciabili – passavano dalle copertine delle riviste patinate alle playlist su Spotify e mentre tante delle loro intuizioni (e ossessioni) diventavano il nostro pane quotidiano, i due producer, che di incontri tra culture, interessi onnivori, attitudine centrifuga e ritmi frenetici erano stati precursori, rallentano fino quasi a sparire, forti anche di un privato tenuto sempre a giusta distanza dalla propria figura artistica.

In questo periodo di silenzio, però, il richiamo dello studio è costante. Nonostante la distanza fisica, la connessione tra Acquaviva e Bracali è di quelle che non s’interrompono. Lo scambio di idee e materiali è continuo. Il feeling, soprattutto, è pressoché telepatico, come suggerisce anche il titolo del nuovo lavoro collaborativo, firmato con l’alias Agents of Decay (rispolverato a dieci anni dalla prima trasmissione).

A dispetto dell’intestazione, però, il risultato di questa jam a distanza è un lavoro straordinariamente concreto e massiccio. Un album di musica elettronica, ma suonato con il piglio nervoso, sudato e lurido del rock più grezzo e istintivo. Come quando Nick Cave, a cinquant’anni e passa, si è temporaneamente stancato del santone che era diventato, ha tirato fuori i pantaloni di pelle dall’armadio e si è inventato i Grinderman per rimestare nel sudiciume del blues-rock più sporco; solo che qui abbiamo l’hardcore continuum al posto del blues e niente pantaloni di pelle. Come dei giovanissimi Pussy Galore che si chiudono in studio per risuonare pari pari, ma ancora più storto e rumoroso, Exile On Main Street; solo che qui il materiale è originale e pesca a grandi mani tra drum’n’bass, il trip-hop più oscuro, techno afrofuturista e nebbie dub.

Così nelle undici tracce di Tele/Path si viaggia tra echi e riverberi sci-fi (“Neon Light”, “Mewlase”), tra memorie del bel dubstep che fu (“Sharp”) e fra tentazioni metalliche a metà strada tra il grime riottoso di The Bug e la techno più distopica (“Fill The Void”), ma al consueto spirito curioso (presente forse solo nella morbida “Daylight”) si sostituisce uno sguardo intimo al mondo intorno che, conseguenza di questi tempi cupi e incerti, oltrepassa addirittura la nostalgia bass di Burial per trasformarsi quasi in sconforto, a tratti rabbioso (“Bang”), a tratti più meditabondo (“Projeceed”, “Obli”).

Al solito, probabilmente, Tele/Path resterà faccenda per i più invasati, per chi già conosce gli artisti coinvolti, eppure sono proprio certi dischi, così ricchi di idee e di coraggio, di voglia di sperimentare e insieme di attenta osservazione dei fenomeni sociali e musicali, a rendere il panorama della musica elettronica contemporanea così centrale, così interessante e così meritevole di essere seguito.