Aaron Turner: la necessità di creare

Aaron Turner, foto di Faith Coloccia
Aaron Turner, foto di Faith Coloccia

Con il suo ultimo album solista, Turner porta alle estreme conseguenze un filone poetico che ha caratterizzato da sempre la sua ricerca sonora. Sperimentazione, minimalismo, improvvisazione in bilico tra l’istinto e l’elaborazione spingono la narrazione noise che, va detto, spiazza l’ascoltatore ma senza risultare aliena da ciò che ci si aspetterebbe dal suo ideatore.
L’esigenza di creare e la spinta verso la ricerca di nuove idee sembrano, del resto, essere dei temi ricorrenti per Aaron Turner, non solo nella musica.

Sei stato molto indaffarato nel 2019: un album con la collaborazione di Keiji Haino e ora il tuo album solista, uscito subito dopo la fine del tour con i SUMAC. Sei soddisfatto di ciò che hai realizzato negli ultimi mesi? Come giudicheresti questo tuo ultimo anno da un punto di vista musicale?

Aaron Turner: Qualunque possa essere il progetto in cui io sia attivo, tende ad essere la mia priorità e ciò a cui io sono più interessato in quel momento. Non per sminuire le esperienze passate, ma, semplicemente, il presente e la possibilità di fare qualcosa, di creare in questo preciso istante, è quanto di più soddisfacente ci sia, almeno dal mio punto di vista. Detto questo, sicuramente trovo eccitante ogni singola fase del processo creativo, dal momento in cui le idee iniziano a formarsi, fino a quando l’album è mixato e poi pubblicato: ogni singola parte è esaltante. Ma credo che a oggi io stia pensando meno a ciò che è successo nell’ultimo anno e più a ciò su cui sto lavorando ora, in maniera attiva.

Quindi questo vuol dire che c’è altro materiale in cantiere?

Sì, ci saranno un po’ di uscite effettivamente. In particolare del materiale solista, che consiste nell’album che hai sentito e in un altro ep che ho registrato durante l’autunno: è tutta musica che ha quasi due anni ormai, ma ha ancora senso per me, la trovo ancora interessante e sono contento possa finalmente vedere la luce. Al tempo stesso, il fatto che abbiano impiegato così tanto a uscire rende queste composizioni leggermente meno significative per me, semplicemente perché sono state lì a prender polvere per un po’ mentre aspettavo che fossero messe in circolazione; per questo, tra la registrazione e la pubblicazione di quel materiale, avevo già iniziato a lavorare su qualcosa di nuovo, sia per quel progetto, sia per le band in cui sono coinvolto. La mia attività compositiva è continua e direi che, in parte, è una cosa buona, mentre, di contro, tende alla compulsività e alla nevrosi (ride, ndr), che è anche la maniera in cui ho costruito la mia vita e, adesso come adesso, non credo cambierà molto.

Quindi la creatività è come un flusso senza fine?

Finché non muoio o finché non avrò più qualcosa di interessante da dire, la mia attitudine mi spingerà sempre a restare coinvolto nel maggior numero possibile di progetti creativi contemporaneamente, finché sentirò che in ciò che faccio c’è qualcosa che mi fa sentire vivo, che ha valore per me o per le persone con cui collaboro. Penso che qualcosa sia cambiato negli ultimi anni, qualcosa che ha in un certo senso incrementato la mia produttività, il mio desiderio di essere attivo e di fare esperienze diverse col tempo a mia disposizione per fare arte e musica.

Mi pare di capire che l’introspezione e la ricerca personale siano molto importanti per te e per il tuo modo di creare. Oppure trai ispirazione da qualche fonte esterna?

Direi che si tratta di una combinazione di più elementi, se vuoi metterla sotto questo punto di vista. La ricerca personale è importante e ho pensato molto a quali siano le mie motivazioni, al perché io faccia le cose che faccio. Ho analizzato i processi e i risultati dei miei lavori per capire quale possa essere la parte più importante di ciò che sono e di come questo sia rappresentato da ciò che faccio. Di sicuro ci sono altri fattori esterni che hanno un impatto su di me, ritengo che l’idea di un artista che crea in maniera isolata sia una falsità: ogni cosa è connessa e tutto ciò che chiunque riesce a realizzare prende forma attraverso il contatto con diverse persone, o almeno tramite la comunicazione con il mondo esterno, con la realtà. Quindi è ovvio per me che ogni evento nella mia vita, in una maniera o nell’altra, sia collegato a ciò che faccio; una parte della mia creatività è molto personale, si basa sulla mia vita, il mio mondo, il rapporto che ho con mia moglie e con mio figlio, tutto quello che fa parte della mia quotidianità. Ogni emozione, pensiero, tutto quello che scaturisce dall’atmosfera domestica, inevitabilmente mi cambia, e così come cambio io, cambia anche il mio lavoro. Poi, chiaramente, ci sono anche le opere di altre persone che mi interessano e che mi ispirano. Ancora una volta, ad esempio, quello che compone e produce la mia partner, che è un’artista e una musicista: vedere il suo processo creativo, osservare il suo lavoro e ascoltare la sua musica cambia in modo costante la prospettiva che ho sull’arte e sulle forme espressive che utilizzo. Mi ritengo un assiduo consumatore di musica e qualunque cosa io ascolti in un determinato momento risuona dentro di me e mi dà delle idee. Spesso non si tratta di spunti da emulare, ma suoni, atmosfere e mondi che le persone hanno creato e che, in qualche maniera, mi ricordano o mi fanno riflettere sulla mia interiorità o che mi parlano del reale e mi interessano.

Repression's Blossom di Aaron Turner
Repression’s Blossom di Aaron Turner

Penso siano stimoli e punti di riferimento cui ognuno di noi si ispira: prendiamo spunto dal reale per poi rielaborarlo nella nostra interiorità, tramite categorie che ci definiscono e diventano, infine, parte di noi.

Sì, penso che sia vero. In qualche maniera, quando ero più giovane avevo bisogno di creare un’identità artistica che vedevo come separata da quella privata e personale. In questa maniera avevo creato un doppio, vedevo l’arte come un’entità separata dal resto della mia vita. Col tempo, poi, ho capito che, per bilanciare la mia vita e per far sì che il mio lavoro creativo fosse veramente autentico, tutto ciò che faceva parte di me doveva essere integrato, in qualche modo, e tutto doveva essere connesso: avevo bisogno di trovare il modo di unificare questi due aspetti dentro di me, a differenza di quanto avevo fatto nel passato, compartimentalizzando e frammentando.

Sei passato, per così dire, dai due Aaron, quello privato e quello artistico, a uno solo.

Penso di sì, anche se non credo di aver per forza bisogno di mostrare ogni cosa che è personale o intima attraverso il mio lavoro. Significa soltanto che avevo iniziato a realizzare che c’era una divisione dentro di me, stavo tracciando una linea arbitraria che divideva la mia interiorità da ciò che vedevo al di fuori, così da formare separatamente la mia identità come musicista. Al tempo stesso, però, ero anche una persona nel mondo, come padre, come partner e tutto il resto. Alla fine, ho realizzato che, cercando di creare e mantenere queste identità separate l’una dall’altra, stavo in realtà anche producendo una frattura sempre più grande dentro di me. Quando sono riuscito a capire perché facessi così e perché stessi creando queste versioni diverse e distinte di me stesso, ho anche realizzato che avevo bisogno di un equilibrio interno come la persona adulta e matura che ero diventato e che, in realtà, separare queste parti di me mi stava danneggiando anziché essere di beneficio.

Perché in realtà questo processo di divisione estremizza la compartimentazione di ciò che uno è e di ciò che uno crede di essere, invece che semplificare la vita di una persona?

Sì e penso che entrambe le parti, per così dire, di una persona, quando sono così separate, così scollate tra di loro, diventino più artefatte, tanto più sono distanti l’una dall’altra.

Parlando invece del processo creativo del tuo ultimo album solista, come ti ci sei approcciato? Ti sembra di aver composto in maniera diversa rispetto alle tue altre produzioni?

Penso che sia difficile per me essere oggettivo riguardo al mio lavoro, perché vedo le cose da una prospettiva molto più intima rispetto a chiunque altro ne stia al di fuori, quindi, per quanto mi riguarda, non ho percepito un grandissimo allontanamento rispetto a ciò che faccio di solito.
Ci sono alcuni fili che vedo direttamente interconnessi ad altre produzioni che ho realizzato in passato, quindi penso sia difficile per me dire che cosa sia cambiato. Di sicuro c’è un elemento, per quanto molto ovvio, che consiste nel fatto di essere stato l’unico compositore ed esecutore su questa registrazione. Al contrario, in una band, ad esempio nei SUMAC, ci sono altre persone coinvolte nella scrittura e nell’esecuzione e questo modifica l’approccio alla musica che creiamo.
Detto questo, invariabilmente, ciò che sento durante la composizione e ciò che voglio ottenere nel lavoro finito devono sempre essere la stessa cosa, in qualsiasi contesto. Se trovo qualcosa che mi sembra fondamentale a livello emotivo e che parla ad una parte profonda di me, viscerale, allora voglio sentirlo, come se si trattasse di compiere una specie di passo in avanti. Non mi piace pensare di fare la stessa cosa ancora e ancora, penso di avere una determinata personalità musicale e che questa si manifesti spontaneamente in ogni progetto cui mi dedico. Detto questo, ogni idea che è entrata nella mia vita mi ha spinto in avanti e mi ha motivato a fare quei passi in avanti, facendomi procedere da dove ero, fa parte degli aspetti intellettuali che devo analizzare e comprendere nel momento in cui sto scrivendo materiale nuovo. Poi ci sono altri aspetti più intuitivi dai quali ho bisogno di avere una risposta immediata, un riscontro fattuale nel mio lavoro, di modo tale che abbia una determinata risposta nei miei confronti. Diviene come percepire che c’è un centro di gravità tangibile, tanto nel processo creativo quanto nel prodotto finito.

Mamiffer, foto di Ethan De Lorenzo
Mamiffer, foto di Ethan De Lorenzo

E questo centro di gravità, questa necessità di esprimersi può essere il motivo ricorrente che unisce tutto il tuo lavoro, per quanto possa essere diverso e in evoluzione?

Sì assolutamente, penso che per me sia sempre stata una questione di esprimere la mia voce creativa in una maniera che potesse risultare autentica. Ci sono stati momenti, specie dopo essere stato lontano per un po’ dal mio lavoro, in cui ci si poteva accorgere se le idee stessero arrivando da un’ispirazione genuina o se, invece, stessi avendo una specie di blocco creativo che non mi lasciava esprimere liberamente. In quel caso, ciò che usciva dalle mie idee, non era abbastanza vero, non tanto quanto volessi che lo fosse. In qualche maniera tutto questo è uno sforzo per capire la mia stessa identità, ciò che è importante per me, il processo della creatività e che cosa voglio dire. Spero di fare qualcosa che possa parlare alla gente.

Una dialettica a due vie: prima all’interno di te, tra le tue parti, e poi su di un altro livello, indirizzato ad altre persone. Senti la necessità di scavare dentro te stesso e poi, in un secondo momento, trovare connessioni con le persone a cui ti rivolgi?

Sì e forse ancora in un altro senso, più ampio, non credo che il messaggio che voglio trasmettere sia indirizzato solo ad un destinatario concepibile come un pubblico in ascolto selettivo, ma a tutta l’umanità. Di sicuro considero ciò che faccio come materiale per un’audience, ma penso che chi ascolta sia a sua volta una sorta di specchio nei miei confronti e mi restituisca un’immagine di me stesso, di ciò che sono, in un certo senso. Questo mi fa capire che qualsiasi cosa io concepisca e proponga, se la sento profondamente connessa a me ad un livello intimo, può allo stesso modo essere fruita e compresa, accolta da altre persone per cui questa connessione è altrettanto importante e significativa. Non so se saranno molti o una sparuta minoranza, ma di sicuro saranno persone che stanno cercando nella musica qualcosa che va oltre il divertimento e che arriva nel reame dell’interiorità. Allora penso che più io mi sento connesso a ciò che compongo, più questo messaggio troverà la stessa risonanza in altre persone a me simili.

Riguardo i tuoi lavori grafici: sia che si trovino su Instagram o sul tavolo del merchandise ai concerti, credo abbiano una continuità stilistica con ciò che fai in musica. Quali sono i tuoi gusti artistici? Che cosa trovi di interessante nella grafica e nell’arte visiva?

Credo sia una commistione di arte colta e popolare. Sono cresciuto in una famiglia in cui c’erano sempre una certa consapevolezza e un certo apprezzamento riguardo le belle arti, nonostante ci fosse sicuramente un certo gap generazionale. L’influenza artistica veniva soprattutto da mio padre che, nonostante fosse un gran fruitore di arte visiva, non era molto interessato all’arte contemporanea in senso stretto, piuttosto era vicino a quelle forme artistiche che si assestano attorno agli anni ‘20/‘40. Crescendo, quindi, trovavo una sorta di divario tra l’arte cui ero stato esposto da piccolo e ciò che mi mancava nella contemporaneità, per cui sono dovuto andare avanti con le mie gambe.
In più, quando ero giovane, c’erano molte forme espressive interessanti per me, poi, diventate delle costanti attraverso la mia vita: una di queste è stata l’iconografia caratteristica del genere heavy metal, mentre un’altra è rappresentata dai fumetti. Questo approccio molto grafico, quasi commerciale di fare arte visiva è stato un punto cruciale per me tanto da rimpiazzare l’interesse nell’arte vera e propria, facendomi approdare quanto più vicino potessi alla grafica.
Sono altresì molto interessato dall’intersezione dell’arte e della grafica e di come queste sian viste in maniera diversa e possano essere categorizzate e classificate più o meno separatamente, in maniera arbitraria a seconda delle necessità che le persone hanno di creare qualcosa che sia più o meno nobile, per così dire, o vero, o reale.

Come se ci fosse una specie di differenziazione tra l’arte con un’aura di sacralità e l’arte che invece risulta solo indirizzata al consumo, ma che, allo stesso tempo, è canale espressivo e veicola emozioni e necessità.

Sì, sono d’accordo con questo punto di vista e penso che la mia arte e la mia musica incorporino molte funzioni espressive che, almeno in teoria, non dovrebbero occupare lo stesso spazio. Allo stesso tempo, per me, risultano importanti e interessanti, perché stanno condividendo una medesima necessità, come se, unendo due elementi in teoria non miscelabili si riuscisse a trovare una nuova strada.

Sumac
Sumac

Quindi sebbene non si sia, canonicamente, una vera e propria coincidenza di fini tra il visivo e il musicale, questi due elementi finiscono per sovrapporsi perché vengono entrambi da te.

Sì, penso che ci sia una sovrapposizione, perché arrivano dallo stesso punto d’origine. Sono necessità che provengono dagli obiettivi che mi prefiggo di raggiungere attraverso l’arte, visiva o musicale che sia. Ci sono alcune diversità, ovviamente, ma tutto sommato arrivano da un bisogno espressivo comune.

Mi hai detto che hai già scritto un po’ di materiale nuovo e che questo materiale che adesso stiamo ascoltando ha già due anni. Quanto è importante per te la freschezza delle idee? È più importante produrre o ultimare?

È una domanda difficile perché molto spesso cambio direzione a ciò che faccio in base a quello che sento, è per quello che il processo creativo è così importante per me: è una questione sempre aperta, cui cerco di relazionarmi intimamente. Forse il fatto stesso che sia una domanda senza una risposta vera è il motivo per cui faccio quello che faccio e vado avanti nella mia ricerca. So che ci sono alcuni elementi ricorrenti nel mio lavoro che mi hanno affascinato fin dall’inizio, tanto nella musica quanto nella grafica, che sono a tutt’oggi importanti per me e che si manifestano costantemente in ciò che faccio. La mia speranza è che, anche se alcuni di questi aspetti estetici centrali e ideologici continuano ad arrivare e a tornare in superficie, in realtà cambino e si evolvano col passare del tempo. Per questo, penso che ciò che ho prodotto di più significativo – e che continua a rimanere importante anche anni dopo la sua creazione – sia ciò che ha trovato un equilibrio tra la spontaneità e l’intuitività della sua nascita scaturita dalla sperimentazione e tra qualcosa che sia stato quantomeno filtrato, processato e strutturato al fine di dargli una forma. Non dev’essere per forza materia composta a tavolino o calcolata, piuttosto è come se si dovesse, da una parte, alimentare di un’energia vitale che deve comunque mantenere attraverso tutto il processo creativo, ma, allo stesso tempo, necessitasse di abbastanza lavoro per forgiarla in qualcosa che ha una forma finita, un ordine. È come se questo costante processo di calibrazione tra un caos rinvigorente e la sua modellazione fosse effettivamente ciò che ricerco sempre. Penso, però, che ci siano ancora dei momenti in cui quell’equilibrio cambia per me e mi spinge a interessarmi più nel dettaglio alla composizione, a rifinire le idee, a continuare a lavorarci sopra di modo tale che possa mantenere il mio interesse per quello stimolo tanto a lungo quanto lo ritenga necessario, perché sento che c’è un’idea che deve ancora prendere forma. Altre volte, invece, l’impulso iniziale che arriva con un’idea non premeditata e senza alcun raffinamento può essere talmente eccitante e interessante da essere accolto così com’è: l’idea nasce già pronta e non bisogna complicarla più del dovuto.

Quindi è come se tu stessi cercando una specie di equilibrio perfetto tra l’impulso spontaneo e il tentativo di educare l’idea originale in una forma fruibile quando è effettivamente necessario.

Sì, esattamente. Penso che questa visione sia influenzata dal progetto più recente che ho realizzato e questo perché si tratta dell’occasione in cui sono riuscito ad essere più vicino a unire entrambi quegli aspetti. In questo disco, credo di essere riuscito a lasciare che tanto l’improvvisazione quanto la formazione delle idee avessero libero sfogo. È un esperimento che non sempre ha successo ma che, in questo caso particolare, mi ha dato un’ottima sensazione di equilibrio.

Qualche tempo fa avevo letto una tua intervista, in cui raccontavi di come, durante la formazione dei SUMAC, le jam sessions si fossero rivelate il mezzo per connettersi istintivamente con gli altri membri e trasferire quella spontaneità nelle canzoni.

Sì, i SUMAC per me sono stati decisamente l’esperienza più gratificante che ho avuto – almeno come band leader – da un po’ tempo a questa parte.

Quanto è importante il legame interpersonale che si stabilisce con gli altri membri di una tua band? 

Non penso ci sia una risposta universale, so solo che in questo momento della mia vita voglio davvero fare musica solo con le persone con cui riesco a relazionarmi bene, con cui riesco avere un buon rapporto. So che ci sono tantissimi esempi di band formate da persone che si odiavano visceralmente ma che si sono comunque unite attorno un’idea comune per fare dell’arte meravigliosa, così come ci sono stati sicuramente dei momenti nella mia vita in cui ho fatto musica con persone con cui non andavo necessariamente d’accordo e i risultati sono stati nonostante ciò buoni. Ma questa fase è passata e penso che la vita sia troppo corta per giustificare lo spendere tempo con delle persone con cui non mi diverto e che non mi piace avere attorno, anche se lo scopo fosse quello di fare buona musica. Mi sono reso conto che conosco così tanti musicisti con cui mi diverto che non c’è ragione di sprecare tempo e collaborare con altra gente con cui non voglio stare. Non per quieto vivere: va bene ed è salutare avere del conflitto creativo con le persone con cui stai facendo musica. Ma in ultima analisi penso che andare d’accordo a livello personale possa solo migliorare la qualità della musica che compongo. In questa prospettiva i SUMAC sono stati un esperimento di successo per me, perché quando abbiamo formato la band nessuno di noi conosceva direttamente Nick (Yacyshin). Con Brian, invece, ci conoscevamo da vent’anni, siamo sempre stati amici e avevamo sempre accarezzato l’idea di suonare insieme. Non penso che i SUMAC sarebbero diventati ciò che sono adesso se non ci fossimo effettivamente trovati bene l’uno con l’altro come amici. In questa fase della mia vita i SUMAC, gli Old Man Gloom e il mio progetto personale coinvolgono soltanto persone con cui vado molto d’accordo.

Per chiudere l’intervista, potresti darmi un’idea di ciò che ci possiamo aspettare da te nel prossimo futuro?

Sì, assolutamente. Visto che abbiamo iniziato la conversazione parlando del materiale solista, ho un altro gruppo di composizioni che ho registrato tra il 2018 e il 2019. C’è più materiale di quanto sia necessario per un solo album e al momento sto facendo una cernita delle canzoni. Spero di concludere nei prossimi mesi e di pubblicare più avanti nel corso del 2020. Oltre a questo, c’è un album degli Old Man Gloom che stiamo finendo di registrare e di mixare, e un album dei SUMAC che è stato mixato a settembre. Quelli sono i progetti più imminenti, poi c’è anche un altro disco che ormai ha anch’esso circa due anni ma che uscirà sempre nel 2020, una collaborazione tra me, la mia partner (Faith Coloccia) e tre persone con cui abbiamo pubblicato dischi sulla nostra etichetta Sige. Ci siamo trovati insieme e abbiamo fatto una lunga improvvisazione, dopodiché abbiamo speso un po’ di tempo facendo editing, mixando e facendo una cernita delle quattro ore di materiale originale, fino ad arrivare a 40 minuti di ciò che penso e spero sia buona musica.

Sembra che il 2020 sarà nuovamente un anno molto pieno per te! Ti vedremo ancora in Italia a breve?

Spero di sì, so che gli Old Man Gloom faranno un tour in Europa in estate per alcuni festival e sarà così anche per Mamiffer e SUMAC, o il mio progetto solista. Quindi, spero proprio ci possano essere anche delle date in Italia con alcuni di questi progetti.