A club chiusi: Cristian Vogel e Semi Precious

Il lungo periodo pandemico, che ora sembra giungere verso una definitiva conclusione, ha impattato con forza su tutto il mondo della musica: non soltanto, infatti, ha interrotto quasi completamente per oltre un anno (fatta eccezione la breve e parziale riapertura della scorsa estate) qualsiasi evento live, ma ha costretto artisti e artiste a confrontarsi con forme inedite (e spesso inevitabilmente parziali) di fruizione. L’impossibilità di esibirsi dal vivo ha spinto molti a interrogarsi sulla natura stessa del loro lavoro: riflessioni che nel panorama elettronico e dance sono apparse quanto mai urgenti e improrogabili. Che senso poteva avere continuare a produrre musica pensata per il dancefloor nel momento in cui si faticava anche solo a immaginare un possibile ritorno verso qualsivoglia qualsiasi luogo di aggregazione?
Tali ragionamenti hanno coinvolto artisti di diversa provenienza e di differente età: a febbraio, per esempio, è stato il veterano techno Cristian Vogel a sfornare un intero album dedicato alla chiusura dei club, mentre più recentemente il londinese Semi Precious ha dato alle stampe un secondo lavoro discografico (seguito dell’esordio Ultimate Lounge del 2016) che ben fotografa la lunga sensazione di dislocamento.
Partiamo dunque proprio da questa seconda uscita: Post Euphoria (che di Semi Precious, al secolo Guy Baron, è anche tesi di dottorato) risolve la tensione tra il desiderio dell’energia di un party e la realtà di lockdown e coprifuoco aggiungendo un romanticismo ambiguo e queer a sonorità elettroniche spigolose e taglienti. Per quanto tra le ispirazioni citi artisti visionari come Burial, Caterina Barbieri e Lorenzo Senni, il risultato suona come una versione più concettuale, ma meno elegante e suadente, dell’algido synth-pop del norvegese Nils Bech.
Se dunque il breve disco di Semi Precious finisce per non discostarsi troppo da un songwriting elettronico e hd sì efficace, ma anche piuttosto prevedibile, è il ritorno in grande spolvero del producer cileno (ormai berlinese a tutti gli effetti) a portare suggestioni soniche ben più rilevanti e fascinose. La traccia d’apertura, dal titolo assai esplicativo, impiega quasi sei degli otto minuti complessivi prima di lasciar emergere il battito geometrico, seppur spettrale e soffuso, della cassa; la successiva “What Goes Around Comes Around (2020)” tratteggia atmosfere simili con il suo minimalismo modulare e hauntologico. “The All Clear” è un dub mitteleuropeo, più vicino dunque a Craig Armstrong che a Prince Jammy o King Tubby, mentre “Acido Amigo” prosegue la serie dei titoli programmatici e si pone quale verissimo inno per soluzioni psicotrope casalinghe tra continue stratificazioni ritmiche e pause più meditative. “Peace La Roche”, “Pendula” e “Thuja” formano poi un trittico in bilico perenne tra isolamento kosmische e break tentatori. Nota di merito anche per “Ice Le Fantôme C’est Moi”: posta quasi in chiusura, la traccia è una presa di coscienza dolorosa, ma anche pacificata, che innesta sull’armamentario sonico dell’intero album batterie jazzy, distorsioni industrial e misteriosi campioni vocali.
Senza grandi rivoluzioni, ma semplicemente declinando in chiave più riflessiva e intima i ritmi e i suoni che da sempre affronta con grande maestria, Vogel torna finalmente ai livelli di qualità a cui ci aveva abituato, soprattutto negli anni Novanta, scongiurando così l’irrilevanza degli ultimi lavori (l’ultimo suo disco valido era, infatti, Polyphonic Beings del 2016, ma non si avvicinava affatto alla profondità di questo nuovo The Rebirth of Wonky).