A BURIAL AT SEA, A Burial At Sea

Difficile attirare un ascoltatore verso una band senza nemmeno fargliela sentire. Di sicuro una foto può incanalare certe affluenze anziché altre, ad esempio un’immagine di tre redneck vestiti da falene che bevono birra da bidoni di vernice adesca senza dubbio un buon trancio di popolazione rock e qualche depravato dell’ultima ora. Non sempre, però, le piattaforme che distribuiscono materiale musicale mettono in primo piano la foto della band e in questi casi un’altra strategia di conquista viene in aiuto: il genere. C’è l’abitudine da parte dei recensori di trovare la definizione più strana ed assurda per incuriosire il lettore. Voi per esempio non aprireste un link che promette di farvi vedere la foto di un vero toporsomaiale? Io sì. Perché? Cazzo, non l’ho mai visto! E voi, per esempio, avete mai sentito definire una band “POST-ROCK MARIACHI”? Fino all’altro giorno io no e l’esca ha funzionato benissimo. Sono stato colpito come quando si è nel corridoio di un ospizio e buttando l’occhio dentro l’ennesima stanza piena di vecchi, l’infermiera si volta di colpo incrociando il tuo sguardo consapevolmente avvilito e – boom – ti accorgi che ha una trentina d’anni ed è pure gnocca. Quindi cosa fai, non entri? Chiaro che sì. E così mi sono ascoltato questi cinque sbarbi allegri provenienti dall’umida Irlanda che si fanno definire, o qualcuno ha definito, “post-rock mariachi”. Binomio buffo che di certo ci fa fermare per un attimo a pensare e che non è dato nemmeno così a sproposito se lo si accosta alla copertina per un primo esame. Oltre che nella forma, nella sostanza le trombe che colorano quasi tutte le tracce hanno in effetti un’eco da sombrero, anche se ricordano più quell’emo di fine Novanta à la American Football. Non solo la sezione dei fiati attinge da questo panorama, ma anche quella delle chitarre, con accordini malinconici che ogni tanto spiccano sporcati da un bel Fender valvolare. E fin qui tutto studiato bene, ma questi puledri della tedesca Moment Of Collapse Records sanno essere anche ben più frizzanti ed elettrici nel tentativo di aggiungere movenze math alla Totorro (“D’accord”, “Breezehome”), riff monolitici ai confini del post-metal (“You Really Did Grow After All”), ballate sghembe da pogare in reverse (“Nice From Afar, Far From Nice”) e piacevoli squarci riflessivi a decorare ogni brano per allentare la tensione, dando spazio ai fiati e sporadicamente a qualche voce, riempiendoci di quella malinconia soffice un po’ paracula, perché alla fine noi siamo in casa davanti al camino con una birra fresca. La fluidità con cui si alternano le varie influenze musicali è del tutto naturale, niente di così nuovo da urlare al miracolo ma, di sicuro, un disco che intriga e che si digerisce con piacere senza troppo meteorismo, anche perché gli ingredienti sono davvero ricercati e ben accostati. Ascoltatevelo ed ascoltatevelo tutto, ma occhio perché vien voglia di saltare da un palco e per un po’ tutto ciò rimarrà solo un ricordo. Ah, diffidate di chi scrive introduzioni più lunghe del contenuto vero e proprio, di solito sono dei folli repressi anche se spesso hanno ragione… o forse no.