75 DOLLAR BILL, I Was Real

75 DOLLAR BILL, I Was Real

Siamo tutti vittime del blues: una volta entrati dentro quella spirale antica, una volta sentito quel vento sollevare polveri remote, non c’è scampo; come perfettamente mostrato, con amore e umiltà, nel magnifico film di Martin Scorsese “Dal Mali al Mississipi” (in originale “Feel Like Going Home”), sono profondissimi i legami tra il blues e l’Africa; lì trova le sue radici la musica del diavolo, lì si annidano i segreti dell’inizio della nostra avventura su questo pianeta, ed è per questo che certi suoni ci smuovono qualcosa di profondo e d’indicibile; semplicemente, ci riconnettono con la nostra natura, e nulla possono secoli di civiltà, la ruggine degli anni, le sovrastrutture, i dispositivi, il pensiero, la necessità spesso vana di trovare un senso, una direzione. La parola è ritmo, la musica è ritmo, tutto nasce dal ritmo, tutto nasce da un’invocazione, da un’assenza, tutto è blues.

Ottimo esempio di blues desertico espanso, quello dei 75 Dollar Bill di Chen Che e Rick Brown (ex Run On), giunti con questo I Was Real al terzo disco, a seguire le meraviglie di Wood/Metal/Plastic Pattern/Rhythm/Rock del 2016 (lì dentro trovate “I’m Not Trying To Wake Up”, quindici minuti di capolavoro assoluto, sghembo e minimale, un groove imprendibile e perfetto).
Astrazioni, riff reiterati, sanguigni, come un Miles diventato cafone e devoto degli ZZ Top (Tetuzi Akiyama, dedicata evidentemente all’omonimo chitarrista giapponese e ispirata al titolo di uno dei suoi dischi, Don’t Forget To Boogie), economia di mezzi (il set percussivo di Brown è minimale a dir poco), idee chiarissime, grande capacità di scrittura, groove a profusione e un meccanismo oliato e calibratissimo che non perde un colpo. Gli incanti della lunga title-track, che apre il sipario su uno scenario esotico e familiare: Tony Conrad perso nelle sabbie, una battuta di caccia inseguendo animali mitologici che, chissà, potrebbero anche finire con lo sbranarci, un vaghissimo senso di pericolo, di veglia acida, di soglia, un ritmo che rotola miracolosamente, basato su scansioni oblique e perfettamente funzionali; un rituale, più che un semplice pezzo di musica. Il teatro della musica eterna di La Monte Young catapultato in Africa, dove tutto è cominciato, dove tutto finirà: l’eterno ritorno, un vortice lento in cui perdersi, ancora ed ancora. Frutto di un sapiente lavoro di overdub e di montaggio, il lavoro presenta nove tracce mesmeriche e grondanti fragranze lontane, come la promessa di una terra che non sappiamo e che ci travolgerà. Un perfetto incrocio tra minimalismo, fantasmi world music, attitudine kraut (la fissità di certe figure di basso o dei moduli ritmici), movenze folk che sanno di secoli e al tempo stesso di un futuro che ancora non sappiamo dire. Come già accaduto per Širom, con 75 Dollar Bill ascoltiamo una musica che ha il grande pregio di suonare immediatamente come senza tempo; è incisa in questi tempi frantumati e senza dei ma ha lo stesso carico simbolico e sonoro delle prime registrazioni blues, delle lacche gracchianti con la voce di Charly Patton. Era di Blind Willie Johnson l’unico blues registrato dalla Nasa sui Golden Records della sonda Voyager, lanciata nel 1977: fra un concerto brandeburghese di Bach e un coro bulgaro, Stravinsky, Beethoven, musica tribale africana e rock’n’roll, venne inclusa anche “Dark Was The Night, Cold Was The Ground” del bluesman nato a Brenham, Texas nel 1897. Di questo alla fine si tratta… di blues, inteso in senso lato, lanciato nello spazio profondo e ignoto, basta pensare ai piani infiniti ed (e)statici della parte centrale di “New New”, quasi una dichiarazione di intenti: trasfigurare una danza tribale in ambient senza gravità come gli Stars Of The Lid, o, per chi se li ricordasse, i fantastici San Agustin, su Table Of Elements; di un’ipotesi di world music mutante figlia di un’utopia freak, come far incontrare a metà strada i Can e i Tinariwen in una delle città invisibili di Calvino. “WZN4” è  la rilettura del tema dell’inno iniziale, “Every Last Coffee Or Tea”, uno di quei pezzi che ti fanno venire voglia di alzare il volume al massimo, aprire le finestre e metterti a ballare, una vera festa; qui invece viene mostrato il lato riflessivo della stessa medaglia, a dimostrare come in mano a musicisti intelligenti e sensibili la stessa materia possa essere oggetto di diverse interpretazioni. Si chiude ancora in modalità Ghibli e Tuareg con “WZN3”, la Mauritania a chiamare (Chen ha studiato lì con il maestro Jeiche Ould Chigaly). Trance, sete, muri per abbattere i quali basta un solo accordo di chitarra, ritmi articolati e sempre narrativi, inesorabili, un lavoro di arrangiamento magistrale (i musicisti coinvolti sono dieci, ma ogni elemento è dosato al milligrammo, come si fa con una spezia) e un altro disco da custodire come un talismano. Un grande, luminoso esempio di musica migrante, della diaspora. A questo punto speriamo che si decidano a fare un tour europeo e passino pure dalle nostre parti, e dai nostri porti, che resteranno sempre aperti, alla faccia dei subumani che blaterano in questi giorni tristi.

«Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.» (Marco Polo)