75 DOLLAR BILL, 25/4/2022

Verona, Colorificio Kroen.

Vittima felice e da lungo tempo del blues espanso dei 75 Dollar Bill, attendevo con trepidazione questo concerto: una delle mie band preferite degli ultimi anni, finalmente dal vivo in Italia, nell’ambito di un lungo tour europeo. Cercavo la stessa ipnosi sghemba e circolare trovata, come acqua nel deserto, ad esempio in I Was Real, lavoro in studio del 2019 e disco dell’anno per The Wire.

Tocca stasera al Colorificio Kroen, un locale old school come piace a noi (un incrocio tra il FreakOut di Bologna e il Bloom di Mezzago, per chi bazzica concerti nella piana mesopolitana e ipermercata) accogliere il duo americano, per l’occasione allargato a trio con il contrabbasso ed il basso elettrico di Andrew Lafkas. La ricetta è quella semplice e deliziosa che abbiamo già amato nei lavori in studio: ripetizione, trance, sete, groove e un meccanismo che tende a incantarsi su un loop che catapulta Terry Riley e La Monte Young in un’Africa profonda e lontana da ogni stereotipo. Proprio là dove hanno trovato terra le antiche radici del blues. Un suono fuori dal tempo che sta in piedi grazie a pochi, calibrati elementi: un ritmo imprendibile e largo a rotolare senza farsi acciuffare (il primo pezzo sembra un 4/4, poi un 9/8), la chitarra a inseguire fantasmi mauritani (proprio lì Che Chen ha studiato con il maestro Jeiche Ould Chigaly), come un incontro a metà strada tra Can e Tinariwen. Si comincia con la title-track dall’ultimo album in studio e le sue lunghe manovre preparatorie: un drone di fiati (crude horns, li definisce Brown) che fa presagire una deflagrazione che non arriverà, come il nemico nel Deserto dei Tartari di Buzzati; come un Ali Farka Touré catturato in un infinito piano sequenza; ipnotizzato, il corpo ondeggia seguendo il groove semplice e al tempo stesso enigmatico che Rick Brown fa pulsare con una primitiva ed efficacissima cassa di compensato altamente risonante: una specie di cajòn, che agli accenti forti della musica latina preferisce le allusioni estatiche di una trance minimalista, ruvida e delicata quando fiorisce, languida e quasi minacciosa quando prende, con movenze bradipiche, forma.

Poi, a partire dal secondo pezzo (saranno non più di una manciata, a fine serata), qualcosa si perde: forse è Lafkas, che spostandosi al basso elettrico suonato con intenzione sostanzialmente rock e mettendo sempre gli accenti dove te li aspetti, priva di vertigini la formula della band, forse siamo disabituati ai concerti nei club, oppure sentiamo la mancanza dei tanti dettagli (sax baritono, archi) che in studio arricchiscono il lavoro di Chen e Brown; fatto sta che il resto del concerto non porta via, non indica un altrove, non è la liberazione a cui credevamo. In tre si rivela più complicato del previsto restituire la polvere e la magia arcaica e sghemba di pezzi che sono miracolosi per quanto si reggono su un’impalcatura apparentemente fragile, eppure monumentale (cito, tra tutti, la straordinaria “I’m Not Trying To Wake Up”, da Wood/Metal/Plastic/Pattern/Rhytm/Rock, del 2016).

Forse avevamo aspettative troppo alte (davvero i loro dischi sono tra le cose più belle degli ultimi anni), e per questo torniamo a casa un po’ delusi, o quantomeno non entusiasti come avremmo pensato. Con il desiderio di poter rivedere magari i 75 Dollar Bill in formazione a nove come Little Big Band, visto che i dischi dal vivo con questo assetto (sul loro bandcamp ne trovate un po’ 75dollarbill.bandcamp.com)  restituiscono esattamente quell’incanto che cercavamo anche stasera e abbiamo trovato solo nella parte iniziale del concerto.