THE TELESCOPES, 23/10/2015

Telescopes1

Torino, Magazzino sul Po.

Stephen Lawrie sembra il vecchio albero di una nave pirata. Lo incontro dopo forse il millesimo concerto dei suoi Telescopes, mentre si terge il sudore gentilmente e rimembra le tempeste, la bonaccia e le altre storie da naufrago del feedback di vecchia data.
I Telescopes arrivano a Torino circa cinque minuti prima dello show: un cambio di batterista, perso per una frattura in Spagna, un furgone distrutto, e 1000 km divorati in mezza giornata su un van appartenuto alla gendarmeria francese ai tempi di Mesrine.  Ecco come sono arrivati qua, tenendo indietro il karma negativo a botte di volume.

Confrontarmi con uno dei miti della mia cosiddetta adolescenza è stato persino più piacevole di quanto potessi pensare. Proprio come mi immaginavo: “Sono trent’anni che va avanti così”, mi confida lui stesso. Ma da quel 1987 sembra che l’orologio si sia inchiodato. La musica dei Telescopes è sempre lì, marcia e decadente con punte di droga e disperazione affogate nel rumore puro. Mi ricorda quel vecchio albero di nave, saldo sul ponte a resistere alle mareggiate acide e agli infiniti abusi di volume. Dal vivo i ragazzi si danno da fare, maltrattando le chitarre a dovere, con i fuzz che riverberano ruggine giallastra su tutti i presenti e crescono lentamente, come serpentoni di fumo. Pochi pezzi, piuttosto un lungo mantra irrancidito, suonato con furiosa ignoranza e spregio del cosiddetto bon ton. Umano, troppo umano Stephen. Anche se i suoi compagni sono lenze fresche e potrebbero essere i suoi figli, lui continua a salmodiare nel buio, come un inquietante testimone delle nostre sconfitte quotidiane, perso nei suoi dialoghi tossici. Fragile ombra immobile che si aggira sul palco bevendo piano, mentre incita la band a scartavetrare le corde come fosse la prima ma anche l’ultima volta. Su “The Perfect Needle” mi metto pure a saltellare.

Finisce senza bis, parole o altre simili abitudini da live show. Già, i telescopi sono un’astronave troppo stretta per il nostro garage terrestre, tanto che ci suona rovinandosi le fiancate lungo gli stretti muri. Devastanti.

La foto è di Irene Gittarelli, che ringrazio.