1789, Faro

Tra le tante stagioni che hanno caratterizzato il panorama indie italiano, prima dell’attuale riscoperta del pop e del fascino sanremese, per cui i confini tra generi (e attitudini) sono diventati meno netti, una decina di anni fa emergeva una fertile scena capace di interpretare e personalizzare le suggestioni emo e screamo d’oltreoceano. Erano gli anni dei Gazebo Penguins e della indimenticata label partenopea Fallo Dischi. In contemporanea, da Roma, emergeva un duo folk-blues che, nella fase di maggior riconoscimento, arrivava a supportare i Verdena per il tour di Wow. Si chiamava Sadside Project ed era formato da Gianluca Danaro e Domenico Migliaccio, gli stessi musicisti che animano ora i 1789, progetto che con l’ep d’esordio Faro sembra porsi proprio in un ipotetico e suggestivo punto d’incontro tra la proposta italica dell’oggi e quella, per noi preferibile, di quando ci emozionavamo per ogni nuova uscita di Verme, auden, riviera, HavaH…

Già dall’orecchiabilissima “Loot”, breve traccia d’apertura che innesta su di un riff di chitarra reiterato e trascinante l’irresistibile cantato/urlato, è chiaro il periodo di riferimento ed è altrettanto evidente che, dietro a testi adeguatamente malinconici c’è un sofisticato gioco di rimandi. Infatti, dalla successiva “Alderaan”, l’urgenza e la coralità più tipiche del suono emo si sposano con i rimandi alla fantascienza degli anni Settanta e Ottanta (Alderaan è il pianeta dove cresce la principessa Leila e che viene distrutto dalla Morte Nera nel primo Guerre Stellari). Quella che però potrebbe sembrare una strategia furbetta per conquistare le fan e i fan di “Stranger Things”, nelle mani dei due 1789 si fa riflessione (o, per meglio dire, meta-riflessione) sui meccanismi di una nostalgia (o retromania) spesso indotta:

E se anche tu ti chiedi perché vedi tutto così strano e nostalgico
ma lo so che vuoi tornare a casa
ma non trovi più la strada per Alderaan
che poi non esiste più.

Non è sempre così: in un pezzo potente come “BiffTannen” il personaggio di “Ritorno al Futuro” è una scusa – banale ma comunque riuscita – per guardare anche i cattivi attraverso un’altra lente, quasi per motivarli a riscattarsi. Ma i 1789 sembrano giocare, forse inconsciamente, su più livelli all’interno di un universo tutto retromaniaco. Ne “Il Dente del Giudizio” si finisce, infatti, per immaginare un dolore che, in realtà, non c’è mai stato: per restare in ambito fantascientifico, un dolore mai vissuto ma proverbiale che funziona come i fantasmi semiotici, frammenti di un profondo immaginario culturale che si sono staccati e hanno acquisito vita propria, come le navi volanti alla Jules Verne che vedevano sempre quei contadini del Kansas (W. Gibson).

Per tornare alla musica, invece, il disco sfodera ancora un’importante scarica di elettrica energia nella struggente “Eva-02” prima di approfondire il lato più pop. “La Promessa” è una ballatona dalle venature sintetiche indecisa tra l’animo più DIY e tentazioni da grande palco, mentre la conclusiva “L’Ultima Volta” è una potenziale hit. Con la complicità vocale della concittadina Margherita Vicario, i 1789 riprendono la lezione folk della loro precedente incarnazione e la rinvigoriscono con uno strepitoso giro di basso, rotondo e dalle vaghe spezie world, immaginando, proprio come “Guerre Stellari”, un futuro passato: c’è stato un tempo in cui il mondo era diverso […]ritornare là, in quell’epoca con le astronavi e gli eroi non è poi così diverso da tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana.