16, Lifespan Of A Moth

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Here comes the pain again / too soon to comprehend

Non ho mai raccolto i numeri, solo alcune impressioni di chi ascolta la musica zozza, ma in sostanza i 16 sono la classica band sottovalutata che avrebbe meritato più successo. Lo pensa anche Relapse, che ha avuto l’ottima idea di ristampare i loro primi dischi, oltre a pubblicare ormai da anni i loro nuovi album. Nonostante non siano davvero celebri, qui da me in “periferia” (Trieste) hanno un bel seguito. Inizia tutto negli anni Novanta, non so bene come, dato che all’epoca non li ascoltavo. Pare che ai tempi i fattori in gioco fossero, in ordine sparso: ragazzi stufi di roba tupa-tupa che correva sempre più veloce, altri che magari andavano in skate come i 16 stessi, una recensione di Sorge nel momento di suo massimo splendore, un negozio-monumento (oggi chiuso) che teneva roba della band, disagio a palate ed ecco che Chris Jerue e soci diventarono uno dei punti di riferimento – insieme a Unsane e Melvins – anche per chi provava a mettere su un gruppo. Questa, tra l’altro, è una storia che sta proseguendo, dato che i Grime, che sono di qui e sono legati a quel giro di vent’anni fa, sono stati in tour coi 16 nel 2014. Insomma, si tratta di una vicenda sedimentatasi nel modo di essere, di pensare e di suonare di una piccola comunità, che va dunque raccontata ancora perché possa trasmettere qualcosa a chi verrà dopo e fargli capire cos’è successo prima.

Con gli anni i 16 si sono appesantiti, ingrossati, e non sto parlando della loro forma fisica. Penso al primo pezzo di Curves That Kick, iperdinamico, ed è come se dovessi giusto un attimo ri-sintonizzarmi di nuovo su di loro prima che il nuovo disco mi entri in circolo. Le componenti punk e crossover occupano meno spazio rispetto a quella sludge, il sound s’è fatto più catarroso, quasi adeguandosi alla voce del frontman, ripresosi da mille dipendenze e vivo per miracolo, col corpo in frantumi ma proprio per questo in grado di essere e rimanere l’anima dei 16, merito anche della spietata autoanalisi che compie coi testi.
Il gruppo ha sempre avuto il pregio di saper scrivere canzoni e riff. Oggi ha pure una nuova sezione ritmica molto valida, ne discende che anche questa volta riesce a cacciarci in testa altri tre o quattro buoni pezzi, qualcosa di non scontato in anni in cui al massimo ci si ricorda di come una band suona, non del singolo brano. Difficile non mandare a memoria “Landloper” – che farebbe muovere la testolina anche a padre Gabriele Amorth – o “The Morphinist”, con un refrain che di sicuro canterete al loro prossimo concerto. Non dimentico una veloce “The Absolute Center Of A Pitch Black Heart”, che in qualche modo riappende in stanza il calendario del 1993. Siamo solo a metà disco: potrei nominare ancora “Secrets Of The Curmudgeon” (vedi citazione iniziale) e i sette, insoliti minuti di “George”, ma è già chiaro quel che c’è da fare con Lifespan Of A Moth.

ZOLOFT_SMILE

(immagine prelevata da qui)