1476, Robb Kavjian

Fieri assertori di un approccio diy e convinti della necessità di avvicinarsi alla composizione con mente aperta e senza pregiudiziali di sorta, i 1476 hanno creato un blend unico di folk, metal, ambient, post-punk e altro ancora, il tutto al servizio di una ricerca continua che accantoni le certezze acquisite a favore dell’apprendimento e della scoperta. Abbiamo rivolto qualche domanda a Robb, uno dei due musicisti coinvolti nel progetto, il quale ci ha illustrato senza rete la sua visione artistica, che ha molto a che fare col sapersi mettere in gioco, anche – se non soprattutto – a livello personale. Ne è uscita una chiacchierata interessante e spesso lontana dalle solite dichiarazioni a mero scopo promozionale.

Cominciamo con un piccolo riassunto, quando vi siete conosciuti e cosa vi ha spinto a creare i 1476?

Io e Neil ci siamo conosciuti dieci anni fa quando suonavamo insieme in un’altra band. Quando il gruppo si è sciolto, Neil mi ha chiesto di cominciare un nuovo progetto, cosa che all’inizio non mi andava. La cosa è capitata altre volte nel corso di quell’anno e io ho sempre declinato, finché una notte ho fatto un sogno in cui indossavo un cappello con un logo “1476” e incontravo un mio vecchio professore cui spiegavo che era il nome della mia band. Quando mi sono svegliato il mattino seguente, avevo in mente le basi per i 1476 e ne ho parlato con Neil. C’erano alcune idee forti circa le line guida per il progetto, la principale era che ogni album fosse unico, senza ripeterci e non cadere nella trappola dei generi, così da poter essere ciò che volevamo ogni volta. Credevo che se la musica fosse stata genuina e onesta, sarebbe comunque stata valida e ci avrebbe rispecchiato in barba a quanti stili/generi avremmo incorporato. Abbiamo cominciato a lavorarci seriamente tra il 2008 e il 2009, se ricordo bene.

Avevate in mente sin dall’inizio di essere un duo? Cosa rende più semplice e cosa più difficile l’essere solo in due a gestire l’intero progetto?

All’inizio volevamo mettere in piedi una vera band di quattro o cinque persone, ma non è mai accaduto. Abbiamo provato a lavorare con alcuni musicisti, ma alla fine ci siamo ritrovati sempre in due. Nel 2010, abbiamo registrato l’ep Smoke In The Sky e il far tutto da soli ha preso il via in modo naturale da quel momento. È stato come un vero inizio e abbiamo cominciato a capire cosa volevamo e cosa stavamo facendo. Abbiamo suonato alcuni show in due e occasionalmente con un ospite ad aiutarci. Nel 2011 abbiamo preso la decisione di continuare come duo e di smettere di esibirci dal vivo, il che al tempo ha rappresentato una scelta saggia, perché ci ha lasciato più spazio per esplorare. Dal mio punto di vista, essere in due ha reso tutto molto più semplice. Ci troviamo molto bene insieme, ci comprendiamo e ci rispettiamo. Le cose si muovono più velocemente e lavoriamo molto concentrati. Non dobbiamo affrontare il problema di avere troppi cuochi in cucina, come diciamo qui. Credo che il contro sia l’aumento spropositato dell’aspetto organizzativo e l’impossibilità di riprodurre dal vivo il vero suono dei nostri dischi senza un altro membro (una delle ragioni per cui abbiamo smesso di esibirci).

Di recente la Prophecy ha ristampato i vostri lavori precedenti, come siete entrati in contatto con la label e cosa potete raccontarci di questi primi album e delle loro ristampe? 

Abbiamo sottoposto alla Prophecy quattro brani del nuovo disco Our Season Draws Near e da lì sono iniziati i contatti. Era importante per noi completare l’album prima di approcciarli, per questo sebbene il disco sia stato appena pubblicato, in realtà lo abbiamo finito nell’autunno del 2015. La Prophecy voleva prima ristampare il nostro catalogo, cosa che è accaduta nel luglio del 2016. Il primo ep è un lavoro acustico con l’aggiunta di alcuni synth analogici e si chiama Smoke In The Sky. I testi si concentrano sull’idea metaforica di trasformare il piombo in oro come base dell’alchimia, sullo sconfiggere la debolezza, superare gli ostacoli e rinascere come una nuova e più forte versione di te stesso. Potrebbe piacere ai fan di Nick Cave, Current 93, Cult Of Youth e forse Mazzy Star. Le prime cento copie della versione originale sono uscite con un cd bonus di un nostro live in cui suonavamo in due. La Prophecy ha aggiunto l’intera esibizione come bonus alla ristampa. L’uscita successiva è stato un album, Wildwood, che suona più duro e denso. È stato concepito come un commentario alla natura umana, le nostre contraddizioni e idiosincrasie e la nostra crescente separazione dal mondo naturale.  È stato composto attraverso le lenti dell’ermetismo e con un immaginario basato sulla natura. Colma il vuoto tra atmospheric metal, neofolk, punk, ambient e progressive rock. Quando lo abbiamo realizzato con la nostra etichetta diy Seraphim House, abbiamo prodotto un’edizione speciale che la Prophecy ha incluso nella ristampa. Il disco successivo si intitola Edgar Allan Poe: A Life Of Hope & Despair. È stato ideato per una rappresentazione basata sulla vita di Poe che è stata messa in scena dalle nostre parti.  La musica è fondamentalmente guidata da piano e violino mixati con synth, campionamenti e alcune parti elettroniche sperimentali. È un lavoro malinconico che guarda alla vita di Poe e alle atmosfere del 1800, ha una forte vena neoclassica. Questo disco potrebbe intrigare chi apprezza Ulver, Hilmar Örn Hilmarsson, Coil, Current 93 e anche Chopin. Le ristampe di questo, come quella di Smoke In The Sky, sono state aggiornate con un nuovo artwork poiché le vecchie grafiche sono andate perse o erano di qualità troppo bassa per essere riutilizzate, solo l’artwork di  Wildwood è rimasto lo stesso. Tutti gli album sono comunque omogenei come layout e presentazione, un aspetto cui tenevamo molto.

Da quanto mi risulta le vostre radici sono nella scena punk/diy, credete che l’attitudine diy abbia offerto un valore aggiunto alla vostra musica e al vostro approccio ?

Abbiamo decisamente una forte base diy, ma non siamo mai stati coinvolti in una scena. Da adolescente ero coinvolto in una piccola scena anarco-punk ma non mi sono mai sentito del tutto parte di essa. Apprezzavo l’intensità della musica e il senso di coinvolgimento delle persone con quelle idee ma non ne ho mai condiviso appieno l’estetica. Comunque, è stato lì che ho incontrato per la prima volta il diy. Ciò che ci ha offerto è un approccio artistico completamente libero. Possiamo andare a fondo o lontano quanto vogliamo senza inibizioni. Una delle ragioni per cui abbiamo deciso di lavorare con la Prophecy è che supporta i suoi artisti in modo molto simile a quello appena descritto, il che è raro per un’etichetta discografica, specialmente oggi. Forse, ancora più importante, quest’ottica ci ha reso auto-sufficienti. Abbiamo un ristretto gruppo di persone che lavora sotto la bandiera della Seraphim House, con cui stampiamo i nostri album e ci occupiamo delle grafiche, serigrafiamo le nostre maglie, realizziamo le foto per i dischi e le foto promozionali (a parte quelle per la ristampa di  Smoke curate da Old Hag). Fare le cose a questo modo comporta un sacco di lavoro e lunghi processi di apprendimento, ma lo raccomanderemmo ad ogni artista perché ci sono grossi vantaggi a seguire di persona ogni particolare dei tuoi progetti. Ogni cosa che impari ti migliora anche sotto gli altri aspetti. Per esempio, imparare a registrar e missare la tua stessa musica e a forgiare il tuo suono, ti aiuta a progredire anche come compositore. Ho affrontato le cose in questo modo per così tanto tempo che non posso pensare a qualcuno che si occupi delle cose per conto nostro. Tutto il resto è importante quanto la musica per me, la musica è un dettaglio in un quadro più ampio, per cui dobbiamo dipingere tutto. Anche se siamo sotto contratto con la Prophecy, lavoriamo grosso modo nella stessa maniera e credo che questo abbia reso più profondi i nostri rapporti con la label durante l’ultimo anno, sia dal punto di vista degli affari che dell’amicizia.

Quali sono stati i vostri primi ascolti? Cosa vi ha spinto a diventare musicisti e comporre la vostra musica?

Per quanto mi riguarda, di sicuro il classic rock/metal da ragazzino, poi come ho accennato prima il punk e la musica underground da adolescente e, nella mia tarda adolescenza, ho scoperto le band della scena black metal norvegese quando finalmente  hanno toccato le coste degli States. Lì è dove finalmente ho trovato la mia vera casa. Con il punk, le idee e l’estetica non mi comunicavano realmente qualcosa, a parte pochi nomi, ma con il black metal ho trovato chi davvero parlava la mia lingua a un livello più profondo e spirituale. Questo mi ha cambiato la vita. Da qui in poi, ho scoperto la musica elettronica di artisti di cui mi sono innamorato. Lungo gli anni questo percorso mi ha portato al post-industrial e al neo-folk.  Per quanto riguarda Neil, lo scoprire musica e decidere di suonare ha coinciso con l’incontro con i Dream Theater e l’album Metropolis pt. 2: Scenes From A Memory. Quello è stato il primo momento in cui la musica lo ha rapito e gli ha fatto venir voglia di comprenderla e esserne parte. All’inizio ha sperimentato con la chitarra e il basso, ma presto ha trovato il suo strumento naturale nella batteria.

Il nuovo album mostra alcuni spunti differenti se paragonato alle vecchie cose, lo avete descritto come più crudo, essenziale e anche intimo. Quali erano le emozioni e le idee cui pensavate mentre lo componevate?  

Prima ho accennato a come il fare le cose da soli comporti un processo infinito di apprendimento. Questo ha giocato un ruolo fondamentale nel nuovo album. Quando abbiamo realizzato Wildwood, volevo suonasse molto esteso e ricco di spazi, ma registrare e missare in questo modo era completamente nuovo per me. Così, ho finito per aggiungere troppi strati di strumenti che alla fine hanno fatto sì che il disco suonasse molto denso e opposto all’idea di ampio. Quello che ho imparato è che lo spazio stereofonico all’interno del quale registriamo non è infinito, per cui più suoni aggiungi, più l’album suonerà congestionato, il che farà apparire il tutto più piccolo (perché sovraffollato). Esattamente il contrario di ciò che mi ero prefissato. Così, quando abbiamo iniziato il nuovo lavoro, mi sono focalizzato su un approccio il più minimale possibile. Ho voluto usare parti con pochi strumenti per far apparire lo spazio intorno molto ampio, quasi infinito. A livello lirico si affronta il tema dell’isolamento, della solitudine, dell’immobilismo, dell’affrontare le proprie debolezza. Questo è stato ottenuto attraverso le lenti dell’Inverno e dell’immaginario mitologico.

In generale, che mi dite dei vostri testi, ci sono aspetti che preferite trattare o qualcosa che ritenete si adatti meglio ai 1476?

Mi piace concentrarmi su differenti argomenti per ogni nuovo disco e cerco di sviluppare un vocabolario specifico per ciascuno di loro, nella speranza che risultino unici e differenti l’uno dall’altro. Credo comunque che ci sia una continuità o almeno lo spero. In ogni album cerco una sincerità emotiva e un profondo senso di onestà. Suppongo sia il lottare contro cose che non hanno risposte semplici. Sono convinto che il punto dell’arte per molti aspetti sia questo, arrivare qualcosa di astratto e irraggiungibile, qualcosa che è sempre avanti a noi e fuori portata. Se un’idea o un concetto sono spiegabili in modo chiaro dal punto di vista intellettivo, ha senso usare le forme d’arte per esplorarlo nel tentativo di comprenderlo?  Lo scopo dell’arte, almeno per me, dovrebbe essere posto più in alto delle cose che già comprendiamo e questo si adatta perfettamente al mio approccio ai testi.  Per avvicinarci all’astratto e allo sconosciuto, dobbiamo utilizzare metodi astratti, come la musica, la pittura, la poesia e così via ed entrare nel mondo dei simboli. Se non avessi il coraggio di confrontarmi con ciò che mi è sconosciuto e pronunciarmi su di esso, non troverei molto valore in ciò che faccio. In passato, questo mi ha lasciato molto insoddisfatto e anche sconfitto da me stesso in molti modi differenti. Al contrario, immergersi negli abissi di ciò che non si conosce acquista sempre il massimo valore.

Descriverei la vostra musica come una miscela difficile da inquadrare, a base di doom, folk e persino post-punk, con un forte taglio personale e umore malinconico. Concordi? Cosa vi attrae in questi linguaggi differenti?

Sì, direi che in quello che affermi c’è del vero. In realtà non pensiamo a ciò che facciamo in termini di stile o genere, ci avviciniamo a ogni nuovo disco nella speranza di esprimere determinate emozioni e di esplorare certe idee. Ancora una volta mi ripeterò, siamo sempre alla ricerca di una profonda onestà in ciò che facciamo. Credo sia semplicemente un riflesso veritiero di ciò che siamo o per lo meno questo è il nostro scopo. Non vorrei sbagliarmi, ma credo sia stato Oscar Wilde a dire qualcosa sul fatto che esiste un solo te stesso. Non sarai mai nulla di realmente differente, non importa quanto ti sforzi strenuamente, potrai anche celebrare quel qualcosa, ma sarai sempre e ferocemente te stesso.

Credi che la vostra regione, il New England, abbia ricoperto un ruolo nella vostra arte? Quali sono gli aspetti di questi luoghi cui vi sentite più legati/vicini?

Sì, ha di sicuro giocato un ruolo, ma non credo che in questo siamo speciali. Credo, infatti, sia normale la gente provi un legame con il suo luogo di origine, la sua cultura, la cosiddetta tribù o alcuni elementi naturali specifici. È nella nostra natura l’identificarci con le cose e creare con loro legami inconsci. Credo, anzi, che il punto fondamentale sia proprio l’essere un processo inconscio. Di solito, non abbiamo la possibilità di scelta circa ciò che ci attrae e questo lo rende interessante ai miei occhi, perché porta a sentimenti complessi. Ci sono molte cose che non amo del New England e molte volte mi riprometto di andarmene , ma esiste sempre una profonda connessione interiore, un amore profondo e un legame indissolubile con questi luoghi. Credo che ciò avvenga per tutto ciò con cui sviluppiamo una connessione. Esiste sempre una lotta o, perlomeno, un flusso continuo di sentimenti positivi e negativi, non importa se riguardi un luogo, una persona con cui hai una relazione, una squadra, una filosofia, una band un tipo di cibo, davvero ogni cosa. Quando siamo attratti da qualcosa, ci leghiamo ad essa nel bene e nel male. Questi fenomeni giocano un ruolo in ciascun aspetto della nostra vita, anche se in modo sottile. Per questo, entra in ciò che facciamo, sia che lo vogliamo o meno. È anche in parte una necessità, qui è dove viviamo e per questo gran parte dell’immaginario del disco viene da questa regione. Io, personalmente, preferisco le parti costiere e quelle più antiche/storiche.

Come si diceva, avete dedicato un disco alla figura di Edgar Allan Poe, un grande artista originario di Boston, possiamo individuare un legame tra i vostri linguaggi? Esistono altri artisti in differenti campi (letteratura, cinema, pittura) che hanno influenzato o ispirato la vostra musica?

Questo album è nato come colonna sonora per una galleria artistica basata su Poe. Sarebbe fuorviante per me affermare che la letteratura di Poe sia stata un’influenza, perché credo di aver letto solo uno dei suoi racconti e ai tempi della scuola, negli anni Novanta. Quando ci è stato offerto di registrare il disco, abbiamo deciso di leggere tutta la sua opera, ma abbiamo poi riflettuto che non volevamo comporre un lavoro basato sui suoi scritti. Abbiamo pensato fosse più interessante studiare la sua vita e costruire la musica attorno a quella. Così, abbiamo deciso di evitare completamente i suoi scritti per non lasciare che influenzassero i nostri sentimenti nei confronti della persona Poe come opposta al Poe autore.

Per quanto concerne le influenze esterne, credo di essere un ammiratore di persone che lavorano troppo duramente e che hanno vite incasinate. Björk è una mia grossa influenza perché è feroce, ha completamente piegato la sua personalità individuale e il suo universo artistico come nessun altro. Può passare dalla musica sperimentale di avanguardia al pop più diretto e tutto ciò che sta nel mezzo senza perdere la sua voce unica e la sua identità. C’è stato un momento negli anni Novanta in cui ha affermato che le bastavano due soli giorni di pausa in un anno, queste sono le cose che mi ispirano.

Avete pubblicato Our Season Draws Near anche come libro, vi va di parlarcene e introdurlo?

La versione libro di Our Season Draws Near è confezionata con la copertina rigida e le lettere impresse in rilievo, circo diciotto centimetri per sessanta pagine. Include l’album e un disco extra con un brano chiamato “Brim-Rúnar”. Contiene alcuni brevi saggi su come è nato l’album e sul contesto mitologico/simbolismo esoterico che abbiamo usato. Per ogni canzone ci sono note lineari, illustrazioni e i testi, con in più molte foto extra e una sezione con delle liriche in più con note che ne spiegano le origini. È di certo un’esperienza in cui immergersi e vorrei tornare indietro per farlo anche per gli altri nostri dischi.

Avete pensato ad un tour europeo per il prossimo futuro per promuovere il nuovo album? Vi piace la parte live della vostra attività o preferite creare musica dentro uno studio?

Suonare in Europa è uno dei nostri sogni e speriamo di riuscire a venire il prossimo anno, sempre se lavoreremo duro nel periodo precedente. Non abbiamo suonato dal vivo durante gli ultimi cinque anni e mezzo e non abbiamo mai suonato con una vera band prima. Per questo, non siamo mai stati soddisfatti con le nostre vecchie esibizioni live. Ora, abbiamo dei musicisti per i concerti e a maggio suoneremo i nostri primi show negli USA. Ci siamo sempre trovati più a nostro agio in studio ma abbiamo raggiunto un punto in cui l’idea di suonare dal vivo ci eccita. È una nuova sfida per noi, credo sarà bello uscire nel Mondo dopo tutti questi anni e ottenere una nuova prospettiva sulle cose.

Grazie mille per il vostro tempo, sentitevi liberi di aggiungere ciò che volete a questa chiacchierata.

Vi vogliamo solo ringraziare per la gentilezza che ci avete mostrato. We send our love and respect to Italy.