Yerevan Tapes, intervista a Silvia Guescini

Yerevan Tapes, intervista a Silvia Guescini

Si può dire che conosciamo più che bene il percorso della Yerevan Tapes, praticamente la seguiamo dagli inizi. Era dunque naturale provare a comprendere appieno la filosofia che sta dietro all’etichetta bolognese, anche per meglio circoscriverla nel complesso panorama underground di casa nostra. Qui sotto il resoconto dell’intervista con Silvia, che ringraziamo per la disponibilità.

Maurizio Inchingoli: Quando nasce l’etichetta, e perché decidi di pubblicare lavori di un certo tipo?

Silvia Guescini: Yerevan è nata nella primavera del 2011 nell’ottica di dare forma tangibile a una passione. Naturalmente, come accade per ogni azione, la forma viene modellata sul percorso individuale di chi la compie, parte dalla storia personale e a questa si intreccia. Il primissimo punto di partenza è stato quello di farsi testimoni e promotori attivi di un contesto di cui si è prima di tutto fruitori, e in questo senso la scelta artistica è sempre in stretta relazione con gli ascolti del periodo, con ciò che si apprezza, stima, e si vorrebbe quindi supportare. Perciò a un primo sguardo il catalogo Yerevan può sembrare in qualche modo eterogeneo, perché si sviluppa di pari passo con le esperienze personali e le belle scoperte.

Maurizio Inchingoli: Se non erro provieni da studi di Antropologia. Non credo sia un caso che tu abbia deciso di usare un nome come Yerevan (capitale dell’Armenia) e copertine ispirate, tra le altre cose, al cinema di Sergej Paradžanov. Cosa ti ha portato a compiere tali studi, e perché ti affascina quella parte di mondo?

Agli studi in Antropologia in realtà ci sono finita un po’ per caso. Per chi come me arrivava diciottenne a Bologna a fine 2003 il must era Scienze della Comunicazione (ancora nella coda lunga dell’ascendente di Eco…), poi certe cose sono cambiate e ho rivisto i piani, con giusta dose di serendipità antropologica. Nel mio caso comunque la fascinazione non è mai stata relativa all’alterità o esoticità di per sé, ma più a una lettura per diversa prospettiva del tipo umano. Un esempio-cliché per spiegarmi meglio: secondo una certa cosmologia aborigena gli antenati totemici crearono tutte le cose del mondo cantando il nome di ognuna di esse di volta in volta che le incontravano nel proprio cammino. Furono poeti nel senso etimologico più stretto, esseri che creano e producono. Questa, oltre a essere una bella immagine, poetica e poietica, si colloca anche nel discorso universale sul linguaggio secondo cui è l’atto stesso di nominare una data cosa che ne sancisce l’esistenza materiale (o per converso il non nominare qualcosa, come nella cultura ebraica il nome di Dio, che per sua natura è non terreno e non afferrabile). Tutto ciò per dire che, per quel che mi riguarda, la forza di questa disciplina non risiede tanto nella contemplazione nostalgica dell’altro (che sia di Uluru, Lagos o della Lucania anteguerra), quanto nell’elastico sistema di prospettiva che permette al nostro sguardo di rimbalzare. Che ci piaccia o meno saremo sempre legati a doppio filo con l’altro, e l’Antropologia ha il pregio di indicare modi sempre nuovi di percorrere e comprendere questa traccia.

Maurizio Inchingoli: Come scegli le band e gli artisti da pubblicare? La Yerevan Tapes in generale si focalizza su artisti di casa nostra, con qualche eccezione, va detto…

Non c’è un vero e proprio metodo, è tutto molto a sentimento. A volte un live che colpisce, a volte ascolti in rete. In alcuni casi via proposta diretta, anche se più spesso per ragioni logistiche e di tempo queste proposte restano ad accumularsi fra la posta in arrivo. In generale, da piccola etichetta qual è, e quindi senza particolari obblighi di mercato, Yerevan si può concedere il lusso di essere parziale ed emotiva nella propria direzione artistica. Non ci sono particolari criteri di scelta legati all’approccio musicale o alla nazionalità di provenienza. L’alta presenza di artisti italiani in catalogo è più che altro imputabile a una maggiore vicinanza di contesto, oltre che, naturalmente, agli ottimi lavori che continuano a venir fuori dal Belpaese.

Giulia A. Romanelli: A oggi nascono sempre più tape-label, sarà per la gestione più facile o per l’hype che si è creato attorno al fenomeno. Alcune vanno avanti con un discreto successo, altre si fermano dopo poche cassette. Yerevan Tapes è una realtà ormai consolidata, e la prima release è datata 2011. C’era un clima diverso nei confronti di questo formato?

Sicuramente a trovarsi dentro un fenomeno si diventa poi miopi sul quadro d’insieme, ma a dover azzardare un parere non so quanto nel 2016 considererei la cassetta una moda. Mi spiego meglio: di certo negli ultimi sei/sette anni c’è stato un incremento del suo utilizzo, ma rimaniamo sempre su nicchie ben definite, ed è comunque giusto considerare che da certi circuiti la cassetta non è proprio mai uscita (penso alla scena industrial/noise/experimental/PE). Certo ha valicato un po’ il confine verso nuove sacche, ma ad esempio nulla di paragonabile per estensione a quanto sta accadendo con il vinile, e i nuovi tempi di attesa delle pressing plant ne sono, ahinoi, testimoni. Rispetto all’oggetto in sé, e senza entrare nel merito dell’annosa questione sulle diverse qualità dei vari supporti audio, resta il fatto che per i suoi costi contenuti la cassetta rimane insieme al cd uno dei formati più propagabili. Per quel che riguarda Yerevan, soprattutto all’inizio quando sostenere certe cifre di stampa erano impensabili, è stato un ottimo veicolo di diffusione, così come è un buon alleato quando particolari minutaggi non permettono la stampa in vinile.

Giulia A. Romanelli: Vivi a Bologna da parecchi anni, città dove progetti e format di serate nascono e muoiono in continuazione, forse per pigrizia del pubblico ma anche per mancanza di volontà e costanza da parte di chi c’è dietro. Con Alivelab curi diversi eventi (tra cui Habitat e Medieval KNights), ed è passato più di un anno dal primo appuntamento di Ombre Lunghe. La risposta della città sembra crescere, ma dal backstage come sta andando?

Vero che a volte il pubblico risulta particolarmente difficile da intercettare, e vero anche che può capitare di mollare per mancanza di volontà o per l’accumularsi di impegni esterni. Ma prima ancora c’è una terza variabile che a mio avviso va sempre considerata: ovvero la componente economica. Naturalmente mi riferisco qui a un determinato tipo di evento, medio-piccolo con costi non proprio contenuti, e che non si appoggia a spazi occupati o a benefattori terzi. In questo caso, soprattutto i primi anni quando si è ancora piccoli per sponsor/finanziamenti, e ti trovi a dover rischiare sempre sulle tue stesse tasche, questa falce miete parecchio, e a ragione.
Ormai sono in Alivelab da due anni, ma il collettivo esiste dal 2011, questo per dire che ho avuto la fortuna di inserirmi in un contesto già ampiamente rodato, costruito da ragazzi che hanno avuto la tenacia di non mollare di cui sopra. Al momento le cose procedono piuttosto bene, quest’anno abbiamo avuto una stagione più serrata del solito, tra Habitat, Ombre Lunghe e collaborazioni esterne (Node Festival, Club Adriatico). Non siamo ancora a chiusura di calendario, ma se si volessero tirare ora le somme il bilancio sarebbe positivo, anche dal backstage. Al netto di alti e bassi fisiologici, quando vedi che il pubblico apprezza e gli artisti ripartono soddisfatti, le energie e il tempo investiti sono in automatico ripagati.

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Maurizio Inchingoli: Ora un’altra questione che certamente ti coinvolge. L’Italian Occult Psychedelia ha dato i suoi frutti, io però trovo che il fenomeno in un certo senso si sia “smaterializzato” presto, anche se alcune band operano ancora, e fanno uscire buoni dischi. Mi dici la tua opinione in proposito?

Credo sia più che altro un discorso di angolazione, ovverosia considerarla un’etichetta specifica e non invece un mantello fluido sotto cui si muovono/muovevano differenti esperienze artistiche (a ragione o a torto vi sono stati infilati dentro tutta una serie di lavori la cui pertinenza era quantomeno ambigua). È stato sicuramente un discreto veicolo di diffusione sia sul territorio nazionale che in parte oltre confine, ma probabilmente proprio per il suo essere così eterogeneo ha visto i suoi pezzi non incastrarsi bene e la base non reggere. Come giustamente fai notare anche tu, buona parte dei progetti che erano stati coinvolti sono tuttora attivi, e i lavori prodotti potrebbero ancora rientrare in quel particolare amalgama. Quindi ecco, forse il brusio mediatico dello scorso periodo sta venendo meno, e con questo una certa progettualità, ma per quel che mi riguarda non si può dire lo stesso di ciò che veniva indicato sotto quel nome.

Maurizio Inchingoli: Mi piacerebbe sapere cosa ascoltavi quando eri poco più che adolescente, e quali sono i dischi che in un certo senso ti hanno poi cambiato la vita…

Non sono mai stata una fedele affiliata di un genere particolare, ma se dovessi cercare un comun denominatore fra i miei ascolti di quegli anni direi che si può far stare tutto dentro il concetto di lo-fi. Album che mi hanno cambiato la vita ora come ora non li saprei indicare, ma posso fare una carrellata di ascolti sommari su una linea temporale fra pre e tarda adolescenza. Nell’ordine, ma anche un po’ mescolati, classiconi punk-rock/punk-hardcore, Black Flag, The Exploited, The Queers, passando per un po’ di riot grrrl, o cantautorato sempre rigorosamente lo-fi (Smog, Will Oldham e i vari Palace, Daniel Johnston…); poi tantissimi ascolti di casa In The Red, Matador, Domino, Crypt o Sub Pop, fino al noise rock e i progetti più sperimentali di collegamento con gli ascolti successivi.

Maurizio Inchingoli: Hai una band che ti piacerebbe pubblicare prima o poi? Mi dici quali sono le realtà che stimi e supporti in qualche maniera?

Come sopra non saprei indicare un artista/gruppo specifico, sicuramente mi piacerebbe continuare a coltivare quando possibile le collaborazioni iniziate negli anni, condividere una sorta di percorso comune è sempre stata una delle priorità. Per quel che riguarda nuovi nomi in genere come dicevo sono epifanie, ad esempio questo autunno abbiamo ospitato a Ombre Lunghe il bel live di RM (progetto solista di Riccardo Mazza), e pensare di continuare questo incontro non mi dispiacerebbe affatto. Realtà che stimo e apprezzo anche solo restando sul territorio nazionale sono tantissime, in ordine sparso: Boring Machines, No=Fi Recordings, Holidays Records, Kohlhaas, Second Sleep, Hundebiss, Angst, Black Moss e la neonata Canti Magnetici. O i nostri “vicini di casa” di Maple Death Records, e così via…

Maurizio Inchingoli: Raccontami delle uscite in programma…

Questo mese di marzo è stato affollatissimo. Sono uscite in cassetta le bellissime registrazioni di Maurizio Abate e Giovanni Donadini sotto l’egida di Arbre Du Ténéré, a una delle quali avevo pure avuto il piacere di partecipare da spettatrice, questo per dire, gli incontri fortuiti di cui sopra… C‘è stata l’iniziazione sulla lunga distanza di Virtual Forest, progetto solista di Marco Bernacchia che porta qui le proprie pulsazioni tribali a danzare sul lisergico lavoro di Manuel Scano proposto in copertina. Ultima ma non meno importante, la primissima uscita di Salvatore Miele, artista bolognese di formazione classica che sotto il moniker Razgraad cuce insieme synth e field recordings con minuzia sartoriale. Passato il mese di marzo, fra la tarda primavera e l’estate dovrebbe uscire in vinile l’ep di Michel Isorinne, ovvero ambient algido dal profondo Nord per il compagno di Varg in D.Å.R.F.D.H.S., e sempre dalle terre svedesi un lp firmato dal poliedrico collettivo Råd Kjetil Senza Testa.