WOLVHAMMER, Clawing Into Black Sun

Wolvhammer

Gli statunitensi Wolvhammer presentano al pubblico il loro secondo disco, Clawing Into Black Sun, mantenendo intatte le caratteristiche delle loro composizioni. Accelerazioni feroci, sostenute da una superba sezione ritmica, si alternano a rallentamenti catacombali, durante i quali le spire dell’impianto sonoro si trascinano in territori paludosi (l’immagine mentale più adatta per descrivere prosaicamente la declinazione del verbo estremo preferita dai protetti della Profound Lore).

Coadiuvati da una produzione volutamente limpida, i Wolvhammer rielaborano l’esperienza del promettente debutto e forgiano otto buoni episodi, tra i quali brillano “Slaves To The Grime” in virtù dell’incessante martellamento di doppia cassa (rimando alle origini hardcore della formazione) e la studiata “A Light That Doesn’t Yield”, attraversata da cori ipnotici, prodromo a una narrazione non dissimile ( notare la parentela velata con il gruppo di Chicago Nachmystium) dalle sperimentazioni sincretiche che recuperano qualcosa dalle strutture del rock classicamente inteso, l’emotività delle forme maggiormente ferali di black metal, l’immediatezza e l’imprecisione tecnica del punk, ed infine la sfumatura cinematica, che, in primis nel Nuovo Continente, si è incarnata nelle divagazioni primitivistiche del folk ronzante di Dylan Carlson degli Earth, il tutto con lo scopo ultimo di suggerire un’estasi sinestetica.

Un gradino sotto la traccia di chiusura “Clawing Into Black Sun”, che nei suoi quattro minuti di durata riassume gli stilemi degli americani. Uno spiccato senso per la melodia alleggerisce le peregrinazioni strumentali del gruppo, mentre la particolare volontà di costruire un lavoro anche per un pubblico che apprezza tiepidamente la fusione dello sludge con il vangelo che viene dalla Norvegia, permette(rà) al trio di guadagnare una chance per imporsi in maniera trasversale (dati, inoltre, i pareri discretamente positivi ottenuti dagli addetti ai lavori), raggiungendo una platea che è negata – restando negli Stati Uniti – a progetti dagli ideali affini, ad esempio a Tjolgtjar o ai celebri Hate Meditation. Nel caso di Tjolgtjar, questo succede perché c’è una scrittura personale che si discosta da ciò che, socialmente, è accettato nell’ambiente (o nella scena), viste le lunghe sedute di meditazioni musicali su materiale compositivo raccolto dalla temperie culturale degli anni Sessanta, mentre in quello degli Hate Meditation la riproposizione pedissequa dell’elemento sinfonico dei primi dischi degli Emperor può allontanare o scoraggiare una determinata parte di potenziali appassionati (ed è bizzarro che questa sia una creatura di Blake Judd, capace in altre sedi, di portare al perfezionamento, come si accennava, lo spirito travolgente dei suoi pezzi, basta sentire “Nightfall” da Addicts).

In conclusione, i Wolvhammer superano l’esame, accendendo l’attesa e la curiosità per i loro futuri sviluppi. Con i summenzionati Nacthmystium affondati dal comportamento erratico del frontman (sono di queste settimane gli apocalittici comunicati stampa della Century Media, costretta dalla dipendenza di Judd ad evadere gli ordini di chi aveva, sciaguratamente si potrebbe aggiungere, deciso di aderire all’offerta legata all’uscita di The World We Left Behind a cui Judd non aveva intenzione di provvedere), si avverte l’assenza di un gruppo talentuoso e aperto ad influenze esterne, che possa non solo convincere gli scettici dell’efficacia di un approccio sovente denigrato (troppo leggero, diviso tra due realtà e scevro da un’identità precisa), ma imporsi sospinto dalla forza di un black metal coinvolgente, lineare e – benché l’aggettivo non si sposi perfettamente col sostrato ideologico – godibile.