TOMBS, Savage Gold

Tombs

Magari si dirà che oggi la musica dei Tombs è diventata sin troppo un affare da Pitchfork e annessa hipsteria, e che questi suoni, una volta appannaggio esclusivo di gente che ancora non si radeva le ascelle e teneva la barba solo perché era pigra, fanno ormai parte dello stereotipo del post-a-tutti-i-costi. Forse è davvero così, chissà, ma a parte il fatto che in Savage Gold di suoni che hanno a che fare col deprecabile prefisso ve ne sono sempre meno, se la qualità della musica della creatura di Mike Hill è di questo livello, allora la questione si riduce davvero a uno sputo nell’oceano. Come a volersi scrollare di dosso un pesante mantello che potrebbe col tempo diventare soffocante, con questo terzo album, che esce – sempre su Relapse – a tre anni di distanza dal titanico Path Of Totality, la band newyorkese sembra voler puntare più sull’impatto diretto che sull’imbastitura di atmosfere di scuola Neurosis. Meno atmospheric sludge e più black metal, insomma. Certo, tutte le band che navigano in queste acque devono prima o poi fare i conti con Scott Kelly e gli altri, e anche se i Tombs hanno comunque sempre dimostrato di avere personalità da vendere, qui sembrano anelare a un ritorno alla furia primigenia del metal più oscuro. Merito indubbiamente dei micidiali blastbeat di Andrew Hernandez, qui più che mai uomo chiave nella definizione del sound del gruppo, ma anche delle chitarre di Mike Hill e dei nuovi arrivati Garrett Bussanick (chitarra) e Ben Brand (basso), che tra arpeggi psichedelici alla Nachtmystium (“Seance”) e malefici riff tirati allo spasimo (“Legacy”) costruiscono un’imponente cattedrale di suono in cui è bello perdersi. E se nei brani più furiosi come “Edge Of Darkness” il growl disperato di Hill non fa che confermare la stretta parentela con il black metal norvegese, è nei momenti più dilatati, posti prevalentemente nella parte centrale del disco, che emergono sia i Tombs “atmosferici” del passato, sia sfumature dark-wave-industrial che potrebbero venire fuori dalle pagine più oscure della carriera di Justin Broadrick (come nella spartiacque “Deathripper”) o ancora epiche aperture di sludge melodico che rievocano i mai troppo lodati Impure Wilhelmina, come in “Echoes” e in “Spiral”. A donare la fatidica scintilla portatrice di vita a questo mostro di Frankenstein ci pensa quindi Eric Rutan (Morbid Angel, Hate Eternal) in veste di produttore, uno abituato a manipolare il chaos e a sguazzare nel death metal più brutale e morboso: l’impressione che si ha fin dai primi ascolti è che Savage Gold sia un disco ancora più solido e compatto dei precedenti, indubbiamente più immediato anche se forse i picchi di intensità toccati da Path Of Totality o ancora di più dalla raccolta dei primi lavori Fear Is The Weapon devono ancora essere oltrepassati.