THE THING, Shake

THE THING, Shake

Ci vogliono muscoli d’acciaio e anni di “palestra” per raggiungere la forma di The Thing. Che questa cosa fosse un affare destinato ad ingrossarsi era evidente, dato che Mats Gustafsson (sax), Paal Nilssen-Love (batteria) e Ingebrigt Håker Flaten (basso) non riescono proprio a stare fermi un attimo. Con ancora nelle orecchie il rombo di cannone, e l’urlo fiordico, dei due monumentali lavori per oltre trenta elementi della Fire! Orchestra, uscita che mi sento di raccomandare a chi fosse alla ricerca di forti emozioni, questo ritorno dal titolo Shake ripropone tutti i numeri classici del trio scandinavo.

Come vichinghi dai petti robusti schierati a poppa del loro drakkar, ci trascinano per i capelli in un tour de force registrato in due giorni che inizia – programmaticamente – con Gustafsson che piega il sax come faceva Uri Geller coi cucchiaini, in una “Viking Disco” da manifesto di un suono forgiato col fuoco degli anni, per poi, delicatamente, planare nelle distese di “Til Jord Skal Du Bli”, epica ma in punta di piedi. Di qui in poi c’è tempo per gustare un altro spettacolo di forzuti, cioè il numero delle mani d’acciaio di Håker Flaten, due pale meccaniche che tritano le corde del basso nel solo di “Second Shake”, e poi nelle contrazioni vicine agli Zu di “The Nail Will Burn”, dove il trio sembra azzeccare una meccanica capace di non arrestarsi più, tanta è la potenza sprigionata dalla sua semplicità. C’è tempo per dipanare anche discorsi più complicati, senza dover per forza mostrare i muscoli, anche se alla fine escono pure quelli: è il caso dei tredici minuti e passa dell’ornettiana “Aim”, che va a crescere come una marea fino alle forti ondate conclusive, una vera tempesta free-jazz. Chiudono il disco gli inquietanti spazi di “Fra Jord Er Du Kommet”, col sax che si infila come vento gelido nelle fessure dei piatti e nel pulsare preciso e distante del basso.

Shake è la somma di tanti fattori, migliaia di concerti, infinito ripetersi di temi classici accanto a nuove soluzioni. Suonato benissimo da una formazione rodata, robusta e persino simpatica nell’esasperare la pesantezza del math-rock (un po’ come nel loro Bag It del 2009, dove si strapazzava persino Ellington in salsa pestona, con la benedizione al mixer di sua eccellenza Steve Albini) con un uso giustamente iperbolico degli stilemi di “genere”. Fanno musica pesante forse, ma alla fine sono giganti buoni.