Spazio O’ & Die Schachtel: una scatola per le idee.

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Siamo a Milano, in via Pastrengo, casa O’ e Die Schachtel. 

Voglio sottolineare subito che non si tratta di un’intervista a musicisti. In tal senso mi sembra che da un po’ di tempo tra i “critici” (il termine, a maggior ragione nel nostro caso, è ancor più altisonante) ci sia la brutta e diffusa abitudine di tralasciare tutti quelli operatori e produttori musicali, soprattutto se questi ultimi al contempo non svolgono nessuna attività strettamente collegata alla musica suonata (leggiamo tante interviste nelle quali ad esempio l’ambito dell’eventuale etichetta è solo una piccola digressione), e non c’è niente di più sbagliato, perché leggendo più avanti spero troverete, come me, occhi e orecchie tra i più attenti in circolazione, oltre che persone che hanno saputo vincere le loro scommesse.

Sara Serighelli porta avanti da oltre dieci anni le iniziative del suo centro di ricerca artistica Spazio O’ e posso dire che se ospiti svariate iniziative oltre a nomi, a titolo esemplificativo, come Seijiro Murayama (Fred Frith o Keiji Haino vi dicono niente?), Mario Bertoncini, Okkyung Lee, Ferruccio Ascari, Rashad Becker, collettivo A.I.P.S. o Will Guthrie, puoi quantomeno permetterti di vedere il bicchiere mezzo pieno. Aggiungerei: l’importanza di portare un discorso coerente sull’arte contemporanea e sulle sue ramificazioni, è di O’ in collaborazione con Die Schachtel il dvd Six Films 1966-1969 di Phill Niblock, musicista sì, ma anche – meno notoriamente –   film maker. Chi vi scrive ha di recente passato una serata all’Hangar Bicocca dove O’ e il fotografo Roberto Masotti hanno curato un’esposizione dedicata a Alvin Lucier, quindi è sembrata capitare a fagiolo la possibilità di fare quattro chiacchiere con loro.

Dall’altra parte (ma nemmeno poi tanto) Fabio e Bruno portano avanti un discorso a dir poco esemplare sul nostro territorio grazie alla loro etichetta Die Schachtel. Vicina spiritualmente alla Cramps del bel tempo che fu e simile a certi anfratti di catalogo della Sub Rosa, ma soprattutto in anticipo di svariati anni rispetto alla Mego della più selettiva GRM recollection, la “scatola” milanese si adopera da tempo in una ricerca a 360° non solo per il restauro del materiale risalente agli anni d’oro delle cosiddette avanguardie (Gruppo N.P.S., Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, Aldo Clementi o Pietro Grossi e tanti altri ancora, che è un peccato non nominare ma non voglio finire per annoiarvi ripetendovi, tra l’altro, le solite cose). A loro dobbiamo in primis la riabilitazione del musicista di frontiera Luciano Cilio, assieme a tutto lo scandagliamento di sonorità più new age del periodo anni ’70 come Prati Bagnati Del Monte Analogo, Prima Materia o il disco di prossima uscita Antico Adagio di Lino Capra Vaccina (Aktuala, Telaio Magnetico), senza contare la propositività di pubblicazioni dedicate a nomi odierni della sperimentazione come Agostino Di Scipio, Valerio Tricoli, Andrea Belfi, Angelo Petronella o Stefano Pilia.

Tenere vivo il passato e costruire il futuro sono la stessa cosa.

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Die Schachtel e penso subito a Evangelisti. Una coincidenza?

Fabio Carboni: No, non è una coincidenza. Il nome è infatti un omaggio alla nota composizione di Franco Evangelisti, ma allo stesso tempo è anche un nome pieno di fascino ed evocazione. Ovviamente ne avevamo pensati anche altri, ma quasi subito ci siamo convinti che questo fosse il migliore.

Bruno Stucchi: Il nome ha anche il pregio di essere la perfetta – e vagamente ironica – metafora di quello che alla fin fine facciamo: scatole piene di suoni (“Die Schachtel” vuol dire “la scatola” in tedesco). Il suo difetto maggiore appare invece evidente tutte le volte che lo dobbiamo dettare lettera per lettera ad un impiegato delle poste o della Siae…

Da anni avete trovato casa presso lo Spazio O’. Come sono i rapporti tra coinquilini?

Fabio: Beh, i rapporti spesso sono idilliaci, dato che ci capita sovente di lavorare assieme a molti progetti che riguardano la musica o il suono. Altre volte magari i rapporti sono più “complicati” relativamente alla cosiddetta logistica dello spazio.

Sara Serighelli: Generalmente riusciamo a collaborare in modo molto naturale, perché ovviamente trovandoci nello stesso luogo le idee vengono favorite in maniera molto più immediata. Anche prima avevamo modo di collaborare, ma trovandoci in sedi distaccate era più complesso, mentre adesso ognuno si becca in faccia direttamente le cose dell’altro.

Partendo dalla musica, assieme state portando avanti un discorso molto legato alla multidisciplinarietà. Quanto contano i vostri background?

Fabio: Mah, non poi molto. Per quanto mi riguarda, ad esempio, nel campo delle arti visive ci sono molte cose che piacciono ad entrambi e che solo secondariamente sono “multidisciplinari”, quindi di per sé non è un intento programmatico quello di fare progetti di carattere multimediale.

Sara: Sì, non è una cosa decisa a tavolino, ma è una cosa che semplicemente “avviene” dal momento che anche le persone che frequentano lo spazio hanno delle estrazioni piuttosto differenti, perché provengono da ambienti musicali o legati alle arti visive piuttosto che all’editoria. La multidisciplinarietà quindi nella nostra programmazione è presente, ma in una forma estremamente naturale e libera, non precostruita.

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Ci raccontate qualcosa su prossimi eventi?

Sara: Gli appuntamenti grossi in calendario che stanno catalizzando gran parte del lavoro di questi mesi sono ad esempio “Vapore”, che è un progetto cominciato assieme a Francesco Tenaglia. L’appuntamento prevede l’ ascolto in solitaria di un singolo brano commissionato a tre diversi musicisti. Un’altro progetto per fine novembre è “Sprint” e sarà un salone relativo all’editoria indipendente, mentre ad inizio novembre avremo “Radiofonica”, una tre giorni dedicata all’arte radiofonica tra Italia e Germania. In particolare ci ha assorbito quest’ultimo progetto con Alessandro Bosetti, che è appunto oltre che musicista anche autore radiofonico. Grazie a lui avremmo anche la presenza di Anna Raimondo, altra artista che spazia dalla musica alle installazioni a produzioni radio. Assieme abbiamo lavorato su questo progetto, loro in particolare si sono occupati prevalentemente della parte contenutistica. Siamo riusciti inoltre ad avere come ospite in mezzo a tutti gli altri Marcus Gammel, il direttore di Klangkunst, che ha un format all’interno di Deutschlandradio Kultur. Avremo una sorta di seminario, laboratorio aperto al pubblico dove avverranno talk, conferenze via Skype e non da meno tanti ascolti e musica. Il tutto è finalizzato a mostrare al pubblico il significato più eterogeneo di arte radiofonica oggi.

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Si tende a pensare alla radio come una maniera antidiluviana di fruire musica e arte. Nonostante le possibilità che ha oggi di interlacciarsi al medium web, però, sembra sempre rimanere come un “discorso” a parte, come mai secondo te?

Sara: Io penso che questa sia una percezione che c’è in particolare in Italia. Premetto che non ho poi una conoscenza così approfondita di cosa realmente sia la radioarte, però accompagnata anche da Alessandro e da Anna ho avuto modo di conoscere una serie di situazioni estere che hanno senza dubbio una vitalità maggiore. Infatti uno degli obbiettivi di “Radiofonica” è quello di lavorare sulla costruzione di una rete in Italia per l’arte radiofonica, perché è una cosa che qua manca. Abbiamo in questo diciamo soltanto situazioni molto di nicchia che offrono spaccati reali su produzioni contempoanee, prendendo come esempio radio ORF in Austria, o altre in Germania, Inghilterra o Belgio che offrono un ventaglio molto ampio di generi all’interno della programmazione come contenuti di radio dramma, field recording e sound art, che hanno poi una reale circolazione e ancora più spesso in questi ambiti avvengono anche molti festival. In Italia, invece, di enti più grossi penso sia rimasta solo la RAI, che passa contenuti molto sperimentali piuttosto che delle esperienze che sono già abbastanza radicate sul territorio come Radio Papesse, una radio molto giovane che lavora su questa dimensione di ricerca allargata. Purtroppo però gran parte di queste produzioni di radio arte hanno poca diffusione all’interno dei canali preferenziali, non è ancora chiara tra il pubblico l’idea di cultura radiofonica. Il problema però sta a monte, nel senso che è tutta la diffusione dell’arte contemporanea ad avere difficoltà in termini di spazi e risorse.

Arte Radiofonica e penso subito al lavoro che avete messo su qualche annetto fa con “Imagination at play. Prix Italia and Radiophonic Experimentation”.
Avete detto: “five years of intense, passionate and sometimes painful work”. Le problematiche di una release di tale carico?

Fabio: Il “painful work” era dovuto soprattutto alla quantità di materiale da redigere e preparare, perché comunque si è trattato di un volume di sei dischi più libro. È stato poi estremamente laborioso, perché – come è giusto che sia – non si può avere accesso libero al materiale RAI, quindi da un lato sono stati complicati sia il semplice ascolto, sia poter ottenere una licenza per la pubblicazione, soprattutto perché si trattava di passaggi spesso tecnici e burocratici e se pensi che la commissione si riuniva solo quando aveva modo, senza contare tutti i travagli dovuti agli allora commissariamenti, avrai più chiaro l’intrico della faccenda. Ma alla fine anche per merito di Angela Ida e Maria Maddalena (le due autrici del libro, ndr), che avevano mostrato grande entusiasmo per il lavoro, ce la si è fatta.

E tornando al discorso di prima sull’arte radiofonica, il Prix Italia è uno di quegli esempi lampanti di come si possa fare radioarte in Italia e farlo anche con una diffusione “decente”, perché comunque i pezzi allora venivano trasmessi e premiati. Questo però appunto era ed è un caso molto isolato, tipo Radio3 che fa ancora programmazioni interessanti di questo genere, però gran parte delle altre frequenze purtroppo sono già assegnate a radio commerciali il cui unico intento è quello di trovare ascoltatori che sappiano già cosa trovano o piuttosto che siano lì a recepire messaggi senza alcuno spirito “critico”.

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Pensate di buttarvi nuovamente in un progetto simile?

Fabio: Al momento no, però c’è un progetto abbastanza ampio sempre legato al patrimonio RAI con l’archivio di fonologia. Ancora non posso dire nulla, perché non c’è niente di “avviato”, però l’idea sarebbe quella di ripescare e rivitalizzare dagli archivi vastissimi tutta una serie di brani inediti di un sacco di compositori che hanno fatto la storia della musica contemporanea. Ce ne sono davvero tantissimi, ma la cosa più interessante riguarda tutti gli stranieri che ai tempi ospitava il centro perché lo studio fonologico (nel quale lavoravano anche due luminari della fonologia come Marino Zuccheri e Alfredo Lietti, ndr) di Milano era uno dei pochissimi, e migliori, al mondo e rappresentava una specie di viaggio premio per tutti i compositori esteri (come quelli latinoamericani o asiatici).

Questa è un po’ la solita domanda che si fa a chi produce musica: quando ascoltate qualcosa per un’ipotetica pubblicazione cos’è che vi fa drizzare le orecchie?

Fabio: Sicuramente per noi la cosa più importante, essendo semplici ascoltatori senza alcuna formazione musicale in senso stretto, è che ci piaccia. A volte questo nasce in maniera spontanea, mentre altre volte uno di noi preferisce qualcosa e l’altro meno. Ecco tutto. Tra l’altro in questo ultimo periodo ci è capitato di ascoltare del nuovo materiale di Manuel Zurria e su quello ci siam subito trovati d’accordo, come non succedeva da tempo.

Bruno: Il che non vuol dire che di solito non siamo d’accordo, ma che la discussione sulla musica è una delle parti più stimolanti della nostra attività, e che la responsabilità di pubblicare produce un’atteggiamento completamente diverso dal puro ascolto per “piacere”. Tutto quello che abbiamo pubblicato è comunque frutto di una visione e di un gusto fortemente condivisi.
Ma così non abbiamo risposto alla tua domanda, anche se – per quello che ha spiegato Fabio – una risposta puntuale sarebbe difficilissima: diciamo che reagiamo a quello che sentiamo essere “vivo”, che ha una sua “urgenza”, al di fuori da manierismi, “tic” o trucchetti estetici e intellettuali che spesso si trovano in questo tipo di musica.

Quando tutto è cominciato, avevate già in mente cosa sarebbe potuto diventare?

Fabio: In un certo senso sì, perché per noi l’interesse principale era rivolto alla scena italiana e quindi sebbene non avessimo in mente già titoli e autori che sono venuti nel corso del tempo però, almeno in parte, questo tipo di panorama lo conoscevamo. Questa è stata e continua ad essere per noi una linea guida.

Bruno: Dipende da cosa intendi. Se ci aspettavamo di diventare una label conosciuta e rispettata? In tal caso la risposta è che non ci siamo posti la domanda: volevamo solo fare le cose per bene, con grande passione, rispetto e cura, e questo ha certamente pagato, anche se purtroppo non finanziariamente.

Avete riportato alla luce svariati musicisti e compositori soprattutto del periodo delle cosiddette “avanguardie”. Ora a Milano avete il NoMus che sta svolgendo un lavoro ammirevole per quanto riguarda l’archiviazione del tantissimo materiale di quel periodo. Laddove però è più difficile recuperare informazioni ai fini di una pubblicazione, com’è che riuscite fisicamente a metterci le mani?

Fabio: Spesso questo genere di informazioni viene o direttamente dai musicisti o eredi o da incontri con chi di dovere che si sono conseguiti negli anni. Ad esempio il disco di Teresa Rampazzi (Musica Endoscopica, ndr) ci ha permesso di conoscere Ennio Chiggio, grazie al quale abbiamo potuto successivamente pubblicare il disco dedicato al gruppo N.P.S. e tra l’altro grazie anche alle conoscenza sulla scena veneto/padovana di quel periodo tra poco speriamo di pubblicare un lavoro di Alvise Vidolin. Quindi più che di qualche database da consultare, si tratta nel nostro caso di entrare in contatto direttamente e fare passaparola.

Spesso associate a molte vostre pubblicazioni libri o inserti artistici. Questo rappresenta una vostra volontà di non fare semplici “dischi”?

Fabio: Sai, il più delle volte non è una volontà preesistente e quindi non si tratta di voler fare progetti “stravaganti”. Talvolta questi progetti eccedono l’ambito mero del disco che se vuoi è circostanziato a delle durate o a un formato preciso. Infatti nel nostro caso l’aspetto creativo o musicale si muove in ambiti più estesi, che sarebbe un peccato lasciar fuori. Questa è la ragione per cui alcune delle nostre release hanno avuto un’articolazione di questo tipo. Però ripeto non è né preesistente né finalizzata all’idea di fare oggetti artistici o edizioni speciali, semmai sono speciali per come sono fatte o per il numero di esemplari, ma non significa per questo fare degli oggetti da galleria d’arte.

Bruno: D’accordissimo. Aggiungo solo che la decisione di rimanere fedeli ad un supporto “tattile” (cd, libro cartaceo, disco, oggetto) non è frutto di snobismo o di aspirazioni artistiche, ma semmai di un pensiero alla “slow food”: toccare, annusare, gustare, leggere, ascoltare, cambiare facciata, aprire scatole… ovverosia recuperare un’esperienza di fruizione sensorialmente ed intellettualmente più ricca e articolata. E anche di poter lavorare su e con materiali vivi e reali: carta, vinile, tele, inchiostri… viva l’industria reale e l’artigianato!

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Su tutta la parte grafica curata da Dinamo (quindi dal cofondatore di Die Schachtel Bruno Stucchi, ndr) viene svolto un lavoro molto coerente anche sulla differenziazione estetica delle varie pubblicazioni (la serie Zeit ecc…). Non la definirei rigida, ma estremamente pulita e funzionale. Parti già con delle idee precise o ti lasci suggestionare dall’ascolto del materiale prima di cominciare?

Bruno: È una domanda solo apparentemente semplice, e infatti la risposta è complessa e “stratificata”. Cercherò di essere il più chiaro e conciso possibile. Sin dalla fondazione di Die Schachtel ho avuto un’idea molto precisa del taglio grafico, se vuoi del “metalinguaggio visivo” che avrebbe stabilito la sua identità. Anche io non la definirei rigida, e nemmeno “funzionale”, se non alla costruzione di un’estetica con una dignità di progetto parallela a quella della musica che pubblichiamo, autonoma e tangente allo stesso tempo. Pur rimanendo fortemente all’interno di un segno e di una ricerca personale, il linguaggio visivo e lo stile di Die Schachtel si ispirano e “rimettono in circolo” una serie di riferimenti fortemente italiani, dalla scultura leggera di Melotti, alla grafica di Pintori, Erberto Carboni, AG Fronzoni, all’esperienza informale di Fontana, Burri, Capogrossi… potrei andare avanti ore, ma in breve il senso è questo: fare con la parte visiva la stessa operazione che facciamo con la musica, ovvero stabilire o ristabilire un DNA, un’identità fortemente italiana, personale, distintiva ed essenziale. Tieni conto che tutto, ma proprio tutto, parte dal disegno a mano, lontano da estetiche digitali nordico/teutoniche o da estetismi anglosassoni. Il computer è solo uno strumento di montaggio, e la dimensione fisico-tattile degli oggetti ha un’importanza pari al segno nel restituire l’esperienza “analogica” e quindi multisensoriale di una proposta editoriale che rifugge dall’attuale “reductio ad unum” digitale ad opera dei canali di distribuzione “immateriale”.

Riguardo alle diverse serie, in effetti ognuna ha una connotazione abbastanza chiara e coerente. Questo non solo perché noi intendiamo ogni serie o collana come un “imaginary landscape” (per citare Cage), ma anche perché ogni cover si richiama alle altre, costruendo un aspetto diverso di un dato panorama musicale, che è il risultato della somma del lavoro individuale del musicista e allo stesso tempo della visione dell’editore. OHR, gli Obscure Records di Eno, la stessa Ecm e molte altre esperienze note sono altre chiare manifestazioni dello stesso atteggiamento, in cui la somma delle parti e superiore al singolo. Infine, a proposito della suggestione musicale (sarebbe meglio dire attento ascolto, conoscenza e interpretazione – o reinterpretazione – visiva) la risposta è sì, certamente esiste una relazione diretta, precisa, unica ed individuale tra la musica e la sua cover, persino quando sono all’interno di serie molto uniformi, quali la “Zeit composers”. Basta ascoltare, leggere e guardare con attenzione per capire, anche se chiaramente il più delle volte la relazione tra musica e immagine/segno è ellittica, e non direttamente descrittiva.

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Mi sembra stiate portando avanti un discorso simile, per catalogo, a quello della vecchia Cramps o è solo una mia suggestione?

Fabio: Sì, assolutamente. Innanzitutto perché entrambi (io e Bruno) siamo appassionatissimi di tante uscite Cramps e poi aveva questo ventaglio così ampio di stili musicali senza contare tutti i fenomeni giovani ed emergenti di quel periodo (pop, new wave). Soprattutto aveva un’impronta grafica tuttora tra le più riconoscibili, questo per merito di Gianni Sassi e guarda caso Bruno è stato un suo allievo. Sono molto fortunato a lavorare con lui, perché Bruno è estremamente addentro alle nostre produzioni grafiche, cosa che, se fai caso, non è così diffusa. Ci sono moltissimi designer che si prestano a svariate pubblicazioni ma così nel profondo nel medium del disco è piuttosto inusuale.

Bruno hai avuto il privilegio di lavorare al fianco di Gianni Sassi. Per molti giovani designer per forza di cose adesso non è più possibile farlo. C’è comunque qualcosa della sua figura che cerchi di tramandare con i tuoi lavori su Die Schachtel (e non solo)? Più in generale qualcosa di lui che ti è rimasto dentro calcolando l’impronta tuttora palpabile che ha lasciato con la sua opera?

Bruno: Sassi – che in realtà è stato mio docente di grafica editoriale nei primi anni Ottanta – era un uomo di un peso specifico (intellettuale) elevatissimo. Ironico e apertissimo, ma dannatamente serio in quello che faceva, e totalmente coerente alle sue idee e ai suoi principi. Forse quello che di lui e del suo insegnamento mi è rimasto più dentro sono la determinazione nel perseguire una visione personale a qualunque costo e l’amore per un’idea di cultura che sia fortemente legata alla vita vera delle persone. Nello specifico di Die Schachtel direi che il lavoro visivo e grafico che ho fatto per Art Fleury e per Insiememusicadiversa è sicuramente un omaggio a quel periodo e a quelle idee.

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Senza esporci troppo, volevo provare un piccola digressione riguardo l’arte, stavolta quella di tipo più eclettico e anticonformista. Bruno, hai curato tutto il progetto grafico di una mostra dedicata a Piero Manzoni. Una tua opinione in ottica odierna riguardo le sue cosiddette merda e fiato d’artista. Insomma pensi che, un po’ come diceva lui, tanta merda e aria di artisti (o artistoidi) e “creativi” (in senso negativo, come fa intendere Enzo Mari) possano valere qualcosa?

Bruno: Mah, non è questione di avere timore di esporsi, anzi ho delle opinioni molto chiare in proposito, anche su Mari, ma la materia è per sua natura sfuggente, anzi nasce e vive appunto nella zona di confine tra senso e nonsenso, affermazione e negazione, sacralità e sberleffo. Un gioco di specchi fatto apposta perché ogni posizione rifletta anche il suo esatto contrario. In questo Manzoni – secondo me artista vero – era assolutamente geniale. Diciamo che per me esiste e ha valore il lavoro vero, quello fisico (anche un certo lavoro intellettuale può ricadere in questa categoria), senza facili trucchi o scappatoie. Tenere una posizione in modo coerente come Manzoni o Cattelan è secondo me frutto di una disciplina e di un lavoro che meritano rispetto. Per quanto riguarda la mostra a Palazzo Reale, ho molto amato poter avvicinare il mio lavoro all’opera di Manzoni, uno dei miei grandi amori giovanili. Quello che ho fatto è anche stato molto apprezzato, con l’eccezione della famiglia Manzoni, sulla quale preferisco tacere. Diciamo solo che mai come in questo caso si applica il famoso verso “Fra i Manzoni preferisco quello vero: Piero”.

C’è un disco in particolare a cui penso in molti si siano affezionati. Parlo di Dell’Universo Assente di Luciano Cilio: come vi è venuta in mente l’idea di ristamparlo?

Fabio: L’idea venne a me, ma perché ero in possesso del disco originale che trovai dentro a uno scatolone di musica jazz ormai molti anni fa. Quello che mi colpì maggiormente fu la sua “inclassificabilità” e penso sia soprattutto il motivo che mi ha convinto a ripubblicarlo. C’è una storia nella storia comunque, ricordo che ai tempi effettuavo molti scambi con altri collezionisti come, in questo caso, Jim O’Rourke ,al quale feci ascoltare questo lavoro, che gli piacque moltissimo. Lui ha aiutato tantissimo a sdoganare il disco, scrivendo oltretutto per noi le liner notes all’interno della ristampa, perché in origine Dialoghi Del Presente venne quasi del tutto ignorato e questo insuccesso, legato alla conseguente emarginazione di Luciano come compositore, lo segnò molto profondamente fino al gesto che tutti conosciamo. In ogni caso, comunque, siamo entusiasti di come il pubblico odierno l’abbia accolto.

Nel tuo catalogo di Soundohm, il sito di mailorder che gestisci, vedo arrivati di recente un sacco di dischi library. Ripensando alla library music: non trovi che si possa parlare di questo “genere” come il primo vero esempio di fenomeno musicale dall’inizio degli anni Zero?

Fabio: Ora che mi ci fai pensare probabilmente è così. È dai tempi forse della Raster Noton che non sentiamo qualcosa di subito così riconoscibile che sta trovando anche una così ampia diffusione. Ero un grande appassionato di dischi di sonorizzazioni, perché un tempo erano molto economici e soprattutto oscuri, nel senso che c’erano pochissime informazioni a riguardo, nessun tipo di referenza infatti molto spesso gli autori erano delle sigle. Già di per sé non si presentavano come oggetti da idealizzare, cioè non c’erano nomi o gruppi a cui fare capo quindi di per sé erano oggetti molto fascinosi e misteriosi, senza contare poi che contenevano della musica fantastica. Ad esempio nel caso di Pietro Grossi io non l’ho conosciuto con i suoi brani per computer ma con dischi di sonorizzazione che erano fatti invece con synth di vario genere. Sono una decina scarsa di dischi usciti a cavallo tra Sessanta e Settanta. La particolarità, quello che mi colpiva, di questi lavori era anche nel come riuscissero a slegarsi dall’approccio tipicamente “da compositore” di chi li faceva, anche perché va tenuto conto che le musiche dovevano essere funzionali alle scene che si andavano a commentare col suono. Non mi sarei mai aspettato che dischi di un genere così di nicchia potessero diventare piccoli oggetti di culto e trovare un così ampio consenso da parte del pubblico.

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Altre foto dello Spazio O’, per le quali ringrazio Giulia Romanelli.